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i migliori vini scelti per voi

Baglio Ingardia e la sua storia secolare

Baglio Ingardia e la sua storia secolare, alle falde del monte Erice, nella campagna trapanese tra ulivi, vigne e il profumo di fiori di Zagara. In primo piano la sua produzione di “Grillo” in purezza, Vitigno autoctono e contemporaneo, ottenuto dall’incrocio di catarratto e zibibbo è un degno rappresentante della Sicilia occidentale: non solo vitigno principe nella produzione dei vini DOC Marsala, ma vino secco versatile e dinamico apprezzato sulle tavole di intenditori e wine lovers. Questo tipico Baglio del XVIII sec. fu costruito dal Barone Todaro della Galla, ed è divenuto di proprietà della famiglia Ingardia solo dal secolo scorso. Questa dimora nobiliare vanta una ricchezza naturalistica straordinaria, sia internamente con un giardino secolare di palmeti, oleandri, agavi, piante grasse gigantesche, piante aromatiche ed il profumo di zagara nell’aria, sprigionato dalle piante di arancio, limoni e mandarini che lo circondano. La visuale si perde su filari di vigne ed innumerevoli ulivi, emblemi della lunga storia della tenuta, il tutto abbracciato da un sole sfolgorante che accende i colori di questa opulenta vegetazione. Esternamente, Baglio Ingardia ha  una posizione privilegiata perché nelle vicinanze si trovano località balneari rinomate, luoghi di interesse storico e naturalistico quali le saline di Trapani, l’isola incantata di Mozia, un connubio di grande importanza che attira sempre numerosi turisti. La produzione di Baglio Ingrazia riguarda: La pluripremiata gamma degli Olii Extra vergini di oliva “Bio” della tipologia Ceraiola e Nocellara Monocultivar (Presidio Slow Food) con una selezione diversificata per Grand Cru.  Ultima novità è la birra artigianale di Tumminia, biologica ed ottenuta col metodo champenoise, non filtrata né pastorizzata, senza aggiunta di solfiti o anidride carbonica, ottenuta da grani antichi. Parlando di vini…. Hanno come comune denominatore: eleganza e grande personalità! Chardonnay “1926” - DOC Sicilia, Neretto Mascalese “Ricordo d’Infanzia” biologico IGP Terre siciliane, Nero d’Avola “Ventu” IGT  anche nella versione “Selection” e “Riserva”, Grillo “1926” DOC Sicilia 2019. Oggi la gestione viene seguita dalla Sig.ra Mariella, con i figli Nicola e Salvatore che ho avuto il piacere di conoscere e frequentare in diverse occasioni. La superficie totale coltivata è di  20 ettari, e in azienda tutto è ispirato al concetto di ecosostenibilità, coltivazione organica ed agricoltura biologica; tutte le fasi sono gestite e curate personalmente dai titolari, con estrema attenzione, fino ad arrivare alla commercializzazione dei prodotti. Il 1926 è una data simbolica importante per Baglio Ingardia: è l’anno di nascita del nonno materno Salvatore Ingardia, fondatore dell’azienda.  Grillo e Nerello sono i vini “Origine”, quelli che sono stati coltivati inizialmente già dagli anni ’60. Grillo "1926": un inno alla freschezza La vinificazione avviene con criomacerazione delle uve a bassa temperatura e fermentazione controllata in silos di acciaio inox e l’affinamento avvviene in silos di acciaio inox per 6 mesi a temperatura controllata e 3 mesi in bottiglia. Degustazione. A livello visivo si conferma con un giallo paglierino, limpido e brillante. Al naso le note aromatiche sono avvolgenti ed arrivano senza invadenza, ma presenti con il sostegno di sentori di frutti a polpa bianca e floreali; a seguire le note agrumate, che chiudono questo cerchio armonioso. Al palato è fresco, abbastanza morbido, scorrevole, fruttato, di corpo leggero ma al sorso è dinamico ed incentiva la facile beva. Per la sua versatilità io ho scelto l’abbinamento con un piatto tipico della tradizione trapanese, “il cous-cous di pesce”. Mantengo con piacere il contatto diretto con Nicola per la fornitura del suo straordinario Olio Ceraiolo Extra Vergine di Oliva, che nella mia cucina è da anni una presenza fissa, ma nella mia cantina non mancano mai i suoi vini, ed il Grillo lo consiglio come uno dei vini dell’estate! Ti è piaciuto l’articolo? Puoi iscriverti al servizio di notifica o lasciare un commento!

Passaggio a Nord Est: Cantina Tramin è la casa del Gewürztraminer

Passaggio a Nord Est: Cantina Tramin è la casa del Gewürztraminer   Realtà storica ma proiettata verso il futuro, Cantina Tramin si muove tra design, marketing e viticoltura ecosostenibile. Riuscita espressione della cultura cooperativa, raccoglie ogni anno premi e riconoscimenti, permettendo a tanti piccoli proprietari di raggiungere tutto il mondo con quasi 2 milioni di bottiglie all’anno. Lungo lo stivale della nostra penisola si snodano, attraversando comuni e province, alcune strade che rendono merito al territorio italiano, alla sua gente e alle tradizioni: sono le Strade del Vino, che una legge del 1999 ha istituito e che, come una mappa nella mappa, guidano molti di noi alla scoperta dei migliori vini, e delle migliori cantine. Proprio una di queste, la Strada del Vino dell’Alto Adige, mi porta oggi alla Cantina Tramin, in quel di Termeno (o, appunto, Tramin), sul versante occidentale della valle dell’Adige. Il Monte Roen veglia su queste terre a metà strada fra Trento e Bolzano, dove lo sguardo è catturato da un’alternanza di colline, valli, fiumi, pareti di roccia. Questa è anche la terra delle mele, e i dolci profumi che avverto avvicinandomi alla Cantina me lo confermano, predisponendomi a trascorrere ore piacevoli e appassionanti. Una cooperativa con DNA cooperativo La storia della Cantina Tramin attraversa tre secoli e due Stati. Siamo nel 1898. Mentre nasce la Federazione Italiana Giuoco Calcio e Guglielmo Marconi deposita il brevetto della radio, in Alto Adige, allora ancora sotto gli Asburgo, Christian Schrott, parroco del paese e deputato al Parlamento di Vienna, fonda con altri viticoltori Cantina Tramin. Oltre 120 anni di storia hanno portato questo progetto a trasformarsi e a diventare una realtà di riferimento a livello mondiale. Anche e soprattutto grazie alla particolare formula cooperativa della Cantina, che coniuga il lavoro indipendente, artigianale, di più di 180 famiglie dedicate ai 260 ettari di superficie di allevamento delle vigne, all’imprenditorialità di una società in grado di mettere a loro servizio strategie commerciali e di marketing, sostegno organizzativo e logistico, coordinamento operativo in ogni fase produttiva. Nel 1971 Cantina Tramin si fonde con la Cantina Sociale di Egna, altra realtà storica di questa zona, nata nel 1893, dando vita a una vera e propria istituzione capace di associare in un unico corpo patrimoni diversi di tradizioni e vigneti. La svolta all'insegna di etica e sostenibilità Nell’evoluzione della Cantina altre due date emergono a punteggiare un percorso di crescita e miglioramento costante. Nel 1991 entra in azienda Willi Stürz, figura chiave dello sviluppo più recente. Enologo e direttore tecnico di Cantina Tramin, “ha saputo trasformare un’eccellente tipica produzione territoriale, quella del Gewürztraminer, in un cru internazionale pluripremiato dalla critica più autorevole, sia in Italia che nel resto del mondo”. Lo testimonia anche il titolo di Miglior Enologo d’Italia assegnatogli dalla Guida Vini d’Italia-Gambero Rosso 2004. A lui si deve inoltre buona parte dell’impulso verso una transizione che Tramin da anni ha in corso: quella rivolta a una gestione e una produzione etica e sostenibile, incentivata da riconoscimenti economici per i viticoltori che adottano metodi di coltivazione nel rispetto della natura, insieme a processi di agricoltura biologica e biodinamica. L’altro anno che segna uno spartiacque nella storia della Cantina è il 2010, quando si conclude l’opera di rinnovamento della sede: affidato interamente all’architetto Werner Tscholl (autore, tra gli altri, del Museo della Montagna di Messner, a Bolzano), il progetto trasforma la struttura in un vero e proprio landmark territoriale. Architettura innovativa e biocompatibile, design, energie rinnovabili sono alla base del nuovo edificio di Tscholl, in una sintesi di bellezza e funzionalità perfettamente integrata nel territorio circostante. La determinante impronta del terroir Territorio, dicevamo. Ecco, forse, il primo, vero, antico “segreto” del successo e della qualità dei vini della “Casa del Gewürztraminer”, com’è ormai nota la Cantina. La morfologia del terreno è particolare, caratterizzata da un impasto in cui si alternano rocce sedimentarie di tipo argilloso e rocce di porfido e calcaree. In superficie il microclima è influenzato dai venti che fin qui giungono dal Lago di Garda, e da una notevole escursione termica giornaliera, che grazie alle basse temperature notturne, anche estive, permette alle uve di trattenere ogni aroma senza dover attivare processi di evaporazione dovuti al calore accumulato durante il giorno. Un simile terroir definisce con chiarezza le strutture dei vini, i loro bouquet olfattivi caleidoscopici, la ricchezza degli aromi e le spiccate sfumature minerali.   Tale dimora ideale ha consentito l’allevamento di vitigni capostipiti di vini apprezzati da critica e appassionati di tutto il mondo, permettendo di arrivare a una media produttiva che si attesta su 1,9 milioni di bottiglie all’anno, destinate per il 70% al mercato nazionale e per il restante 30% a quello estero. La suddivisione delle varietà coltivate privilegia, naturalmente, il Gewürztraminer (circa 22%), con Chardonnay e Schiava entrambi tra l’11 e il 12% e Lagrein, Pinot Grigio e Bianco, Sauvignon, Pinot Nero, Merlot, Cabernet e Müller Thurgau tra il 10 e il 2%. Lunga sarebbe la lista di premi e riconoscimenti ottenuti dalle bottiglie Tramin. Ne cito uno per tutti: nel 2018 “Epokale” è stato il primo vino bianco italiano a ottenere 100/100 punti da parte di Robert Parkers Wine Advocate.   La degustazione: Gewürztraminer “Nussbaumer” 2018   Per la degustazione non posso che orientarmi sul “re” della casa, il Gewürztraminer, scegliendo il “Nussbaumer” 2018 (15%), un Alto Adige DOC. Quello che compio è un percorso multisensoriale, che parte dagli occhi, ancor prima di aprire la bottiglia. La sala che ci ospita è infatti dotata di enormi vetrate che si affacciano direttamente sulle vigne, mentre sullo sfondo ci domina lo spettacolo naturalistico delle Dolomiti. L’approccio scientifico che informa ogni aspetto delle attività a Cantina Tramin emerge anche dalla consolidata procedura di stilare una recensione per ogni annata, in cui si descrivono caratteristiche climatiche e stagionali. Con il prezioso aiuto del sig. Günther Facchinelli, che si occupa del marketing, scorriamo l’analisi relativa al 2018, da cui apprendo che se la germogliazione è avvenuta tardivamente, le temperature elevate e i tassi di umidità hanno consentito una precoce fioritura in

Il Morellino di Cantina Roccapesta, dove è la natura a scandire il tempo

Il Morellino di Cantina Roccapesta, dove è la natura a scandire il tempo   Maremma, terra selvaggia ma ancora in grado di incantare. E' qui, a metà fra il monte Amiata e il litorale Tirreno, che Alberto e Ksenia Tanzini creano il loro Morellino di Scansano. Tra vigne antiche e nuove, a Cantina Roccapesta i maestri vinificatori lavorano miscelando sapientemente passione, competenza e ritmi lenti delle stagioni.  Vitigni con radici lontane   Secondo la tradizione, il Morellino prende il nome dai cavalli morelli, animali robusti e dal manto scuro (di una tonalità simile alla mora) che, a partire dal Medioevo, venivano utilizzati per trainare le carrozze dei nobili e dei funzionari nell’area di Scansano. La storia della viticoltura in Maremma, nel sud della Toscana, tuttavia, ha radici molto più antiche. Già nel V secolo a.C. gli Etruschi coltivavano la vite per produrre vino, come testimoniato da diversi reperti archeologici della zona: attrezzi per la potatura e la raccolta dell’uva, orci in terracotta e statuette in bronzo raffiguranti uomini con in mano una roncola. Furono poi i Romani a proseguire le coltivazioni, e anche per l’epoca medievale alcuni documenti testimoniano la pratica enologica, con riferimenti che descrivono la regione “terra di vino di eccelsa qualità”. Lunghi secoli di tradizione dunque, la cui eco ancora oggi è presente nei sistemi di allevamento delle viti, tenute basse, senza sviluppo in altezza. Morellino di Scansano, dalla Maremma alle cantine del mondo Il Morellino di Scansano ha conosciuto solo recentemente una intensa stagione di successo, in coincidenza con l’acquisizione della meritata DOCG, ottenuta nel 2017. Al 1978 risaliva invece il primo traguardo, quello della certificazione DOC. Protagonista sia sullo scenario nazionale sia su quello internazionale, questo vino è oggi apprezzato in ugual misura da addetti ai lavori e appassionati, i quali spesso cercano di andare a conoscere personalmente, durante i loro viaggi, i vitigni autoctoni regionali e le cantine di nicchia dei produttori, sempre ben lieti - come vuole la rinomata affabilità toscana - di poter offrire conoscenza e un contatto diretto. E non mi è difficile comprendere le ragioni di chi ama venire, o tornare, in Maremma ogni volta che si presenta l’occasione*: ai miei occhi, anche solo quando sono di passaggio, si dipinge immancabilmente un paesaggio che esprime perfezione e meraviglia, un vero toccasana per l’anima.   Le terre del Morellino Le uve destinate a diventare Morellino di Scansano devono essere coltivate all’interno della provincia di Grosseto, la cui fascia collinare è compresa tra i fiumi Ombrone e Albegna, nei territori dei comuni di Manciano, Magliano, Grosseto, Campagnatico, Semproniano e Roccalbegna. E qui deve avvenire anche ogni operazione di vinificazione, imbottigliamento e invecchiamento. I vitigni utilizzati per il Morellino di Scansano sono 85% Sangiovese e 15% Alicante, Ciliegiolo, Colorino, Malvasia Nera, Canaiolo, Montepulciano, Merlot, Syrah, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon. Questi aggreganti sono uve a bacca nera non aromatiche, i cui vitigni, per regolamento, devono essere posizionati esclusivamente in zone collinari con buona esposizione.   Quando ho visitato questa zona ho avuto la fortuna di poter discorrere con Alberto e Ksenia Tanzini, coniugi e proprietari della Cantina Roccapesta. La nostra conversazione mi ha illuminato circa l’influenza che il clima della regione, mitigato dalle brezze del mar Tirreno, esercita sugli impianti. Le colline sono costituite da un terreno scisto-argilloso, con rocce le cui scaglie, salendo progressivamente verso la superficie, si uniscono ad argille e limo, frutto di sedimenti marini: una combinazione di elementi grazie alla quale si ottengono vini intensi, con una spalla acida, raffinata e tagliente. Le piogge, poi, cadono costanti tutto l’anno, con abbondanza in primavera, e la ventilazione regolare, insieme alla consistente irradiazione solare, creano l’ecosistema ideale per lo sviluppo delle vigne e per la loro perfetta maturazione.   Roccapesta, dove è la natura a dettare i ritmi La giornata è uggiosa, ma il calore con cui sono stata accolta ha immediatamente generato un’atmosfera di relax ed empatia. Rivolgo qualche domanda più specifica ai miei interlocutori, curiosa di conoscere i segreti della Cantina. Alberto, da dove proviene il nome "Roccapesta"? Quando abbiamo deciso di acquistare questo terreno, posizionato in prima linea, proprio all’inizio della proprietà, vi si trovava questo enorme masso di roccia, “un portafortuna”. Da qui la decisione di far divenire questo monolite il simbolo attorno al quale si svolge il lavoro di ogni giorno. Cosa c’è alla base della vostra scelta di operare qui? L’azienda ha un forte legame con il territorio, dove la natura conserva un fascino selvaggio e gli opposti si attraggono. Il fuoco dell’Amiata si tocca con le onde del Mediterraneo, le rocce si mescolano alle argille e gli sforzi del lavoro quotidiano si alternano alla spensieratezza dei giorni di festa. Roccapesta è anche la storia di un rapporto con il Sangiovese in Maremma toscana, massima espressione nelle grandi annate, dove le vigne vecchie regalano vini unici. Quando invece l’annata è male interpretata, questo vitigno si trasforma in una fidanzata annoiata, cui è difficile ridare il sorriso. Come viene interpretato il lavoro qui a Roccapesta? Con la cura di ogni particolare. Il terroir sta al vino come la tavolozza all’artista. La tavolozza contiene i colori ma è l’abilità di chi dipinge che saprà dare forma all’opera d’arte. “I nostri colori sono i vitigni autoctoni, il sole della Maremma, il vento del Mediterraneo, il suolo, le argille, i sassi di origine sedimentaria, le rocce vulcaniche, le nostre mani e i nostri sogni”. La nostra abilità è capire le viti, comprendere i loro segnali, dare loro l’equilibrio di cui hanno bisogno. Ecco come nascono i nostri vini: diamo forma al loro carattere interpretando gli elementi che ci fornisce la natura, e rispettando la tipicità di un ambiente straordinario. Quanto incidono le esportazioni all'estero? Partecipando a molte fiere, sia nazionali che internazionali, siamo riusciti a trasmettere le giuste informazioni, a raccontare la nostra produzione, il nostro modo di fare vino, dall’aspetto enologico territoriale fino alla conservazione e all’invecchiamento. Alle degustazioni, poi, affianchiamo con orgoglio la narrazione delle scelte importanti che hanno consentito la riuscita delle diverse tipologie di vino, la

Passo del Furlo, patria del Tartufo

 

Tenute Eméra: le nuove frontiere della vinificazione

Tenute Eméra: le nuove frontiere della vinificazione Claudio Quarta è un vignaiolo con un passato da biologo. Alessandra un’economista sulle orme del padre. L’azienda è il punto d’incontro fra radici antiche e sguardo proiettato al futuro, una cantina che produce vini “capaci di raccontare una terra”, il Salento Un soggiorno in Puglia, a Campomarino di Maruggio, è l’occasione per un incontro con un caro amico, Gregory Massari, titolare del sito web pugliadabere.it. Gregory è uno dei fornitori “speciali”, a cui mi rivolgo da molti anni perché è riuscito a trasformare la sua passione per l’enologia di questa terra in una selezione accurata di cantine e vini pugliesi di eccellenza. Siamo nel Parco delle Dune, in Salento, riserva naturale sorta per tutelare questo tratto di litorale paradisiaco, dove sabbia, acqua e cielo hanno ancora colori puri. Devo quindi fare un piccolo sforzo di volontà per abbandonare momentaneamente questo Eden e accogliere l’invito di Gregory a visitare Tenute Eméra, una cantina a pochi chilometri da qui che, però, riserverà piacevoli sorprese. Lo sguardo ancora abbagliato da un sole caldo e potente si perde nel tipico paesaggio pugliese, tra muretti a secco, che delimitano filari di vigne di primitivo di Manduria, e una immensità di ulivi secolari. I carretti che trasportavano uva appena vendemmiata punteggiano le stradine che mi portano alla cantina, a metà strada tra Lizzano e Torretta e a pochi passi da quel mar Jonio che ho lasciato ad attendermi a Campomarino. La tenuta: il “Sud che emoziona” nel cuore delle DOP di Manduria e Lizzano. All’ingresso mi colpisce la cura dei dettagli: quelli architettonici, decorativi, funzionali che rendono l’insieme accogliente ed elegante. L’antica masseria di fine ’800 che ospita la cantina è il Casino Nitti-Quarta, affacciato su un giardino di palmenti con a lato la vecchia stalla ristrutturata dove pareti di vetro sono incastonate perfettamente nelle arcate di tufo: è la suggestiva location adibita a show room, wine tasting, punto vendita. Claudio Quarta ha inaugurato Tenute Eméra (80 ettari, di cui 50 vitati) nel 2005, dopo una carriera come biologo genetista, professione della quale ancora oggi preserva la passione per la ricerca e la sperimentazione. Il nome si ispira alla dea greca Hemera (il giorno), tributo alla cultura della Magna Grecia e al Salento, “il lembo più orientale d’Italia che per primo assiste al sorgere del sole”. La mission è racchiusa nelle parole che Claudio stesso utilizza: “una illuminata filosofia produttiva, una visione contemporanea con cui ripensare la terra e le sue vocazioni, [per] vivere e custodire le tradizioni millenarie”. A cui si sono aggiunti, come ingredienti di un piatto gourmet, il sapiente uso della tecnologia e dell’innovazione. A portare avanti il progetto, e la visione che lo accompagna, dal 2012 si è affiancata Alessandra, la figlia di Claudio: studi all’estero, laurea in Bocconi e la medesima passione per questa terra e queste vigne, con un’attenzione particolare per la sostenibilità e la solidarietà. Una culla per 500 vitigni Tenute Eméra vanta un primato importante: in collaborazione con la Facoltà di Agraria dell’Università di Milano, dal 2009 ospita 500 vitigni minori, una collezione di biodiversità della vite, considerata la più grande al mondo per le varietà del Mediterraneo. Ogni anno un gruppo di giovani ricercatori seleziona ed effettua le microvinificazioni. Le provenienze sono nell’area del Mediterraneo e delle regioni balcaniche come Slovenia, Montenegro, ma si spingono fino alla Georgia, sul Mar Nero, da cui sono pervenuti alcuni vitigni molto interessanti. Gli obiettivi sono molteplici. Aspetto ampelografico: sperimentare l’impianto dei vitigni in terreni diversi dagli originali, come quelli del Sud Italia, per valutarne la risposta in relazione ai vari tipi di suolo (a volte siccitosi o aridi). Evitare l’estinzione della singola vite, e agire attraverso la propagazione dei germogli direttamente con il portainnesto nella pianta della vite,per facilitarne lo sviluppo. Identificare tra i vari campioni di vite quelli con il maggior potenziale qualitativo in termini di esito in bottiglia, per procedere poi all’impianto in vite dei meritevoli a allo sviluppo di una produzione. Promozione e commercializzazione di nuovi vini unici nel loro genere per storia, coltivazione, caratteristiche gusto-olfattive e visive. Attualmente è in atto la sola fase di sperimentazione, con una produzione minima di pochi litri che vengono ripartiti in parti uguali tra cantina e laboratorio di Milano per analisi e miglioramenti. I vini, e il cibo Alessandra decide di degustare con me e Gregory un aperitivo sul prato, al tramonto: fantastico. Raggiungiamo l’area verde che si affaccia sui filari di vite, i colori del tramonto ci travolgono e... voilà, si stappa. Il protagonista dei nostri calici è il “ROSE” - Salento Rosato Negroamaro IGT 2019 - 13%. La scelta di Alessandra mi sorprende, ma mi emoziona, e la approvo senza riserve. La Puglia è terra d’elezione per i rosati, che stanno finalmente acquisendo autonomia, prestigio e identità, sul mercato e fra gli addetti ai lavori. La tradizione regionale, con i suoli, gli ambienti, le uve pregiate e le lavorazioni dedicate ha ancora molto da raccontarci su questi vini. Nel caso di questo Negroamaro IGT, dopo un’accurata vendemmia le uve vengono diraspate e pigiate delicatamente, e il mosto rimane tre ore a contatto con le bucce, dalle quali estrae una lieve nuance di rosa. Il pregio che conferisce una maggior complessità al bouquet è nel passaggio dell’affinamento, ben cinque mesi “sur lie”, fecce fini, principalmente lieviti esausti. Ritrovo immediatamente quella sfumatura di colore, osservando il rosé scendere nel calice: una nuance di rosa delicato, tenue ma con sfumature di buccia di cipolla un po’ più accentuate che lo distinguono dai tipici rosé pugliesi, solitamente caratterizzati da toni più decisi, rosa accesi, e struttura più importante, Questo, invece, è paragonabile a quelli francesi della Provenza, a siglare un lieto matrimonio tra la tradizione della millenaria cultura di Puglia e i segreti della lavorazione d’Oltralpe. Al naso si percepiscono con delicatezza i sentori fruttati e al palato ho la conferma che si tratta di un rosé elegante, fine, di buona persistenza, dal giusto calore. Fresco e scorrevole, di media struttura e buona armonia, trova il giusto abbinamento con primi

Vini Fina: la magia di una terra, racchiusa in un calice

Vini Fina: la magia di una terra, racchiusa in un calice Durante una vacanza estiva in Sicilia ho colto l’occasione per visitare le Cantine Fina, a due passi dal Mediterraneo e dalla Riserva naturale delle Saline di Trapani e Paceco, in uno scenario unico e suggestivo. I molini a vento, utilizzati per pompare l’acqua tra i bacini, e i cumuli di sale marino che risaltano cangianti all’incontro del sole d’agosto punteggiano queste distese di acqua e luce, mille ettari gestiti dal WWF, un tesoro ricco di natura, fauna, flora e di patrimoni intangibili, tradizioni e sapienza salvati, per fortuna, dall’estinzione. Ad accogliermi trovo Enrico Salsedo, responsabile commerciale della cantina, e la sua accoglienza è quella che ci si aspetta da questa terra e da chi la abita, calda, ospitale, familiare. Prima di parlare della cantina, insieme al mio interlocutore ripercorriamo velocemente la vicenda del suo fondatore, Bruno Fina. Un uomo capace di guardare al futuro Ideatore, fondatore e anima delle omonime cantine è Bruno Fina, che inizia a lavorare per l’Istituto regionale della Vite e del Vino quando Diego Planeta* ne è il presidente. Qui diventa parte di un team di esperti che sostengono la sperimentazione di microvinificazione dei vitigni internazionali chardonnay, cabernet, merlot. La Sicilia, da sempre dedicata a produzioni di largo consumo, e con vitigni autoctoni utilizzati come “uve da taglio” per dare corposità e calore ai vini del nord, viene da loro identificata come un vero e proprio continente vitivinicolo a sé stante. Nascono così centri sperimentali su tutto il territorio regionale per ambientare queste varietà. La vera svolta nel percorso di Fina arriva quando Planeta chiama a collaborare Giacomo Tachis, grande enologo, creatore del “Sassicaia” e del “Tignanello”. Tra i due nasce un lungo sodalizio, e il lungimirante supporto di Tachis si rivela fondamentale per la realizzazione di nuovi impianti in vigna e la sperimentazione di vini nuovi. Vini per tutta Italia Inizialmente i produttori sono restii a coltivare varietà estere, perché la resa è molto inferiore a quella delle varietà autoctone: per convincerli occorreva garantire loro la vendita di una quantità minima e Fina inizia ad affittare parte delle loro cantine per vinificare e vendere il prodotto a grandi aziende vinicole del Nord Italia. Il rapporto con le aziende settentrionali si intensifica, grazie al trend che si sviluppa per la ricerca di vini più strutturati, più ricchi in tannini e con un grado alcolico maggiore, caratteristiche che il clima tipico dell’isola garantisce. Aumentano le produzioni, in ampie parti della Sicilia, e il “terreno” è ormai pronto per il grande salto. La sua cantina Il 2005 segna l’anno zero, quando Bruno Fina, forte dei risultati commerciali ottenuti, decide di creare la propria cantina e dare vita, insieme a Mariella, moglie, alleata e complice, al suo più grande sogno. La struttura della cantina somiglia a un antico baglio siciliano, riprendendo un’architettura arabeggiante a sottolineare l’influenza che questa cultura ha avuto sull’isola, in particolare nella regione a occidente, tra Marsala e Trapani, oggi, tra l’altro, una delle zone più vitate d’Italia. Nel corso di quasi 15 anni di attività, ai coniugi Fina si sono affiancati i tre figli: Marco, responsabile della parte commerciale e amministrativa, Sergio, enotecnico e braccio destro del padre nell’area di produzione, e Federica, la più giovane, che cura la parte di marketing e comunicazione e la gestione dell’enoturismo Orizzonte Fina. L’obiettivo principale è sempre rimasto quello di trasferire la propria passione nell’attività: una struttura efficiente e di moderna concezione, un’organizzazione razionale di spazi e processi, il massimo rispetto dell’integrità del frutto, la gestione intera della filiera. Dalla vigna alla bottiglia, Bruno Fina ha continuato a vinificare, imbottigliare e commercializzare i suoi vini, concludendo ogni passaggio della catena di produzione. E i numeri testimoniano la crescita e il riconoscimento del mercato: oggi a Cantine Fina si producono 650mila bottiglie all’anno, in parte destinate all’estero. I vini Fina I rivoli che abbiamo percorso fin qui ci portano, come in un grande delta, al passo conclusivo e desiderato. La storia di quest’isola e degli uomini visionari che ne hanno saputo magnificare i frutti convergono ora, come magica sintesi, nei calici in cui versiamo e lasciamo decantare i vini della cantina. Per le degustazioni abbiamo raggiunto la terrazza al piano superiore, da cui si domina un paesaggio di collina dove la vista incontra l’Isola Lunga, Mothia, Erice nella sua posizione predominante e il mare azzurro delle Isole Egadi. Una lieve brezza porta i profumi delle ginestre e sfiora le perfette geometrie delle vigne sottostanti. A illustrare le produzioni di Cantine Fina sono le parole di Enrico Salsedo. Quali sono i vini che producete oggi, e a quale tenete in particolar modo? Premetto che grazie alla vena artistica di Bruno Fina siamo riusciti a creare un’etichetta dalla grafica molto esclusiva, ispirata ai motivi presenti nei mosaici della Cappella Palatina nel Palazzo dei Normanni di Palermo (Patrimonio Unesco dal 2015). Abbiamo puntato ad esaltarne la bellezza individuando linee e colori che rispecchiassero la sicilianità, accentrando tutto sul simbolo della palma. Un design che sigla tutta la vasta gamma di vini di qualità e che proprio recentemente abbiamo ulteriormente migliorato per alcune etichette. Nella selezione dei bianchi, a cui sono molto affezionata, spiccano il Kikè (90% Traminer aromatico e 10% Sauvignon blanc) e il Kebrilla (Grillo - vitigno autoctono), il Sauvignon Blanc in purezza, lo Chardonnay e il Taif Zibibbo: vini dal colore giallo paglierino leggermente carico, dalla buona struttura, versatili e consigliati a tutto pasto, equilibrati con una buona freschezza, giusta sapidità e caldi al palato. Alcuni di questi bianchi hanno ottenuto riconoscimenti al Concours Mondial di Bruxelles tenutosi nelle regioni di Castiglia e Leon in Spagna nel 2017, e al Kikè in particolare hanno attribuito la Medaglia d’Oro come miglior vino bianco. Recentemente è stato prodotto anche lo Spumante “pas dosé” ottenuto con metodo classico (Chardonnay 70% e Pinot Noir 30%) che evolve bene se tenuto a riposare in cantina. Unico vino dolce è “El Aziz” ottenuto da uve Grillo al 100%.<br> Una menzione particolare la riservo al Viogner

Moscato di Scanzo “vitigno autoctono aromatico” e il Moscatello della Trefaldina.

Storia della tenuta “La Corona”: Moscato di Scanzo “vitigno autoctono aromatico” e il Moscatello della Trefaldina. Unicità territoriale di un passito rosso, riferimento iconico e storico di eccellenza, e di una nuova versione di rosso fermo che si sta introducendo con successo nella produzione enologica bergamasca. L’argomento che affronterò oggi riguarda un tema che accumuna molti appassionati di vini passiti: il Moscato di Scanzo, appartenente alla famiglia dei Moscati, vitigni aromatici dalle peculiarità olfattive specifiche e uniche. L’area geografica è quella della bergamasca, nella Valcalepio e della sua unicità invidiabile: il Moscato di Scanzo, unico vitigno autoctono della provincia di Bergamo, e tra i pochi a bacca nera della varietà Moscato. Per capirne l’unicità basta pensare che la zona interessata al Moscato di Scanzo si estende per soli 31 ettari, tutti posizionati in colline caratterizzate da elevate pendenze e un’ottima esposizione a sud; del territorio fanno parte 5 frazioni: Scanzo, Rosciate, Negrone, Tribulina, Gavarno Vescovado. Il legame con il territorio è talmente stretto che il nome del luogo indica anche la varietà dell’uva. L’origine del Moscato di Scanzo La storia di questo vino è molto antica, la sua coltivazione è stata diffusa dai romani che a loro volta l’hanno ereditata dai celti. Il nome deriva in parte dal Greco “Ros”, grappoli d’uva, unita alla parola celtica “ate” cioè villaggio, ne deriva il risultato della parola “Rosate”, oggi divenuto Rosciate. La prima notizia sul Moscato di Scanzo risale al 1350: la sua storia si intreccia poi con la guerra tra Guelfi e Ghibellini in Lombardia. Nel 1700, il Moscato di Scanzo ebbe il suo momento glorioso di maggior notorietà, quando l’architetto italiano Guarenghi, che lavorava a San Pietroburgo, fece dono allo Zar di questo prezioso vino, che conquistò l’approvazione della Zarina Caterina II e poi per lungo tempo fu presente sulle tavole della nobiltà Russa. Nello stesso periodo il vino divenne famoso in tutta Europa, ed in particolare quando arrivò alla corte inglese la sua importanza crebbe ulteriormente, e fu tale che venne quotato anche nella borsa londinese. Del resto, ancora oggi Buckingham Palace si rifornisce di questo passito. Come per altri vitigni autoctoni di altre zone d’Italia, anche la coltivazione del Moscato ha subito inevitabilmente la stessa sorte, una forte riduzione dopo la crisi post-filossera all’inizio del XX secolo, poi l’abbandono delle campagne negli anni ‘60 fino ad arrivare quasi all’estinzione negli anni ’70. Fortunatamente negli anni ’80, grazie a pochi appassionati produttori ci fu un netto incremento della produzione, che con il lavoro di selezione clonale gli consentì l’iscrizione al Registro delle varietà di vite da vino. Nel 1993 è stato costituito il Consorzio di tutela del Moscato di Scanzo, ma fino ad allora era riconosciuta solo la dicitura Valcalepio Doc, di cui il Moscato rappresentava una sottozona. Finalmente nel 2009 il Moscato di Scanzo divenne una Docg, prima ed unica a Bergamo, (la più piccola d’Italia) e quinta in Lombardia. Gli anni successivi hanno fatto registrare una buona produzione di bottiglie, che ha consentito a questo pregiato prodotto di arrivare anche sul mercato estero con un 10% della bottiglie totali. E’ importante sottolineare che gli acquirenti erano prevalentemente appassionati e ristoratori di media e alta gamma, desiderosi di avere nella loro carta dei vini questo prodotto di nicchia, per divulgarlo e raccontarlo. Dal 2016 il Presidente del Consorzio del Moscato di Scanzo è Paolo Russo, che fin da subito ha concentrato il suo impegno sulla comunicazione quale strumento fondamentale per diffondere la conoscenza di questo vino autoctono raro. Con l’appoggio e la collaborazione del Comune di Scanzorosciate e la “Strada del Moscato di Scanzo e dei sapori scanzesi”, da alcuni anni si organizzano manifestazioni direttamente sul posto con l’obiettivo strategico di portare i visitatori sul territorio lombardo. Rinomata è la Festa del Moscato, con cadenza annuale a Settembre: quest’anno purtroppo salterà, ma a Scanzo ci si orienta sempre di più ad eventi esclusivi in zona piuttosto che presenziare a grandi fiere, Vinitaly a parte. Quali sono i punti cardine sul quale punta il Consorzio di tutela del Moscato? ° Valorizzazione del prezzo del Moscato di Scanzo, e la creazione di degustazioni permanenti, con l’intento di attrarre l’enoturista, dandogli la possibilità di degustare ed acquistare il vino con un solo appuntamento settimanale, quello del sabato. ° La selezione clonale, avviata già da qualche anno con la sperimentazione di una quindicina di cloni raccolti negli ultimi 15 anni, consapevoli che per intravedere i primi risultati ci vorranno ancora una decina di anni: ma il tempo non importa, il fine è quello di selezionare un vitigno che si avvicini sempre più a rappresentare e garantire la migliore aromaticità al vino del territorio bergamasco. ° Cene-degustazioni organizzate dai soci consorziati, scegliendo come ritrovo i ristoranti e le trattorie del luogo, per vivere momenti di buona condivisione e mettere in evidenza obiettivi di miglioramento e di crescita, esponendo nuove idee per il futuro enologico, perfezionando i vari aspetti che riguardano l’iconico Moscato di Scanzo. In queste occasioni di convivialità si degustano con appuntamenti cadenzati durante l’intero anno i vini dei vari produttori abbinati ai piatti tipici del territorio. “Paolo Russo è riuscito a costruire una trama forte con la sua terra nativa, impegnandosi con dinamicità ed entusiasmo su due fronti paralleli: quello ufficiale di Presidente del Consorzio e quello di produttore di vino nonchè titolare della Tenuta “La Corona”. Entrambi questi fattori convergono sull’unico protagonista: il Moscato di Scanzo che anche se circoscritto al suo territorio ristretto può vantare una buona crescita esponenziale per la sua notorietà.“ In questa cornice paesaggistica predomina la forza della natura in tutto il suo splendore, uno scenario costituito da una flora e fauna rigogliosa, dove la vite trova un ambiente ideale e privo di inquinamento. Visitando questi luoghi la visuale si perde tra le verdi colline fino ad arrivare alle vicine prealpi bergamasche. A Scanzorosciate, e più esattamente nel territorio di Tribulina, si trovano le vigne della cantina La Corona, di proprietà di Paolo Russo. E’ proprio in questo luogo incontaminato che la sua vigna è circondata

Maison Maillart e i suoi champagnes.

Maison Maillart e i suoi champagnes: “Franc de Pied”, Blanc de Noir il suo fiore all’occhiello! Nella Montagna di Reims il Pinot Noir di Nicolas Maillart trova la sua massima espressione: conferma grande carattere e sorprende ogni volta per la sua finezza ed unicità. Oggi vi porto ad Écueil: in questo piccolo comune di pochi abitanti nella regione della Marna, si trova la storia secolare della famiglia Maillart. Storicamente, l’esperienza in vigna degli antenati ebbe inizio già dal 1753 dove lavoravano la vite nel vicino villaggio di Chamery. Un documento antico scritto da Pierre Maillart (geometra giurato a Chamery) per conto dell’abbazia di Saint-Nicaise riporta attestazioni di un suo antenato già nel 1533. Ritornando ai tempi moderni, la svolta epocale si ha nel 2003 quando prende il comando dell’azienda di famiglia Nicolas Maillart, che incarna la nona generazione e arriva dopo un lungo percorso maturato come tecnico agronomo, enologo ed ingegnere all’estero. Questo giovane trentenne ha portato una ventata di innovazione nella maison Maillart, e focalizzando fin da subito quali cambiamenti apportare ha espresso al meglio le sue qualità di lungimiranza e la sua impronta da costruttore, ponendosi come obiettivo principale di fare investimenti intelligenti e durevoli per consentire un generale miglioramento dell’attività vinicola nella sua interezza dalla vigna alla “cave”. Ho conosciuto personalmente Nicolas Maillart nel 2019, durante l’ultima manifestazione di Champagne Experience a Modena. Devo ammettere che è stato un momento piacevole di conoscenza, su un argomento come lo champagne che mi appassiona da quando sono sommelier. Ho apprezzato la sua conoscenza e gentilezza nel spiegarmi la sua filosofia, il suo modo di esprimere al meglio, nei suoi vini, il potenziale dei terroir di Champagne! Sicuramente posso confermare la passione viscerale di Nicolas verso la sua terra, e l’attenzione che pone in ogni particolare per elevare la qualità e diffondere la conoscenza a tutti gli estimatori. Ci siamo soffermati in particolare su un argomento oggi che sta a cuore a molte cantine, quello della eco-sostenibilità. Nicolas Maillart ha messo in pratica dal 2009 tutto il concetto di ecosostenibile e quello del risparmio energetico; lo ha fatto installando 130 mq. di pannelli fotovoltaici che rappresentano una produzione equivalente al 90% dei consumi della Maison Maillart. Questo ha consentito di ridurre notevolmente il consumo di carbonio della maison. Viticoltura sostenibile e durevole, dove il rispetto dell’ambiente parallelamente diventa rispetto dell’equilibrio. Secondo Nicolas, questo è l’unico modo per ottenere la qualità ottimale delle uve. Dalla potatura alla raccolta, tutte azioni vengono svolte manualmente, con l’utilizzo solo di fertilizzanti organici e lavorazioni leggere del terreno, apportando in questo modo un netto miglioramento per la salute della pianta e la sua integrità. Questo approccio ha consentito alla Maison Maillart di ottenere delle importanti Certificazioni quali : HVE (High Enviromnmental Value) di livello 3 e viticoltura sostenibile, attestazioni che comprovano tutte le prestazioni ecologiche che vengono svolte tenendo conto di criteri quali biodiversità, strategia fitosanitaria, gestione delle risorse idriche, ecc. La Maison Maillart possiede 8,5 ettari nella Montagne de Reims; loro hanno un forte legame con il pinot noir che in questi terreni sabbiosi esprime il massimo della potenzialità, trovando il suo habitat ideale. Tutta la gamma di champagne della Maison è composta da vini complessi ed intriganti, ma quello più prestigioso viene da una piccola parcella di Pinot Noir, è quello con piede franco. Tra gli altri nomi importanti possiamo citare: “Platine” 1er cru brut e extra-brut “Mont Martin” 1er Cru “Jolivettes” Grand Cru Brut Rosé Grand Cru Brut Vintage Premier Cru Les Chaillots Gillis 1er Cru extra brut blanc de blanc Cosa si intende con “Franc de Pied”?Si tratta di una vigna piantata nel 1972/73 dal padre di Nicolas Maillart, senza porta innesto, cioè a piede franco, che riguarda una selezione massale di piante pre-filossera, quindi non innestato per salvarsi dalla filossera. Ecco, da qui la nascita del millesimato Le Pied Franc, un Blanc de Noirs che viene prodotto rigorosamente solo nella annate più favorevoli, in una quantità minima (si parla di appena 3.500 bottiglie). Questo straordinario grappolo, dopo essere vendemmiato viene accuratamente pressato e il succo passa poi in botte a fermentare, per essere quindi vinificato in bianco, interamente in legno. Dopo una serie di travasi, prima fermentazione 100% matura ancora in legno di rovere per più di 6 mesi senza fermentazione malolattica. Seconda fermentazione in bottiglia per 5 anni, dosaggio zero; il dégorgement in manuale è dosato a soli 2 g/l, non ha filtrazione. Oggi degusto questo elegante Blanc de Noir, Premier Cru 2012, 100% Pinot Noir “Franc de Pied” zero dosage. Nella flûte si apre a livello visivo un coloro oro intenso con un perlage fine e persistente . Al naso arrivano puliti e netti i sentori fruttati di confettura di pesche e agrumi caramellati. Percepisco mineralità e solo sul finale una leggera speziatura. Al palato il primo sorso è polposo e sapido, con un buon impatto energetico con le bollicine, di buona struttura tendente al robusto che si chiude con un finale secco, puro e di lunga persistenza. Questo champagne raffinato e complesso, di comprovata sostanza strutturale, non è adatto da aperitivi o da pesce ma è perfetto con piatti di carne quali il roast-beef o la tagliata di manzo. Ti è piaciuto l’articolo? Puoi iscriverti al servizio di notifica o lasciare un commento!

Vigne Chigi, il Pallagrello nero e le sue vigne borboniche.

Vigne Chigi, il Pallagrello nero e le sue vigne borboniche. A Pontelatone: la tipicità delle uve autoctone e il forte legame con il territorio casertano. Oggi vi parlerò di uno tra i più importanti vitigni autoctoni campani, il Pallagrello: introdotto dai colonizzatori greci, può essere sia a bacca bianca che a bacca nera. Il Pallagrello come regolamentazione rientra nella Igt Terre del Volturno: il vitigno nei primi del novecento era scomparso, e solo recentemente, per la precisione nell’ultimo ventennio (la sua registrazione ufficiale è del 2004) è stato evidenziato ed apprezzato il suo valore qualitativo conferendo una nuova spinta alla realtà enoica della Campania. La superficie dedicata alla coltura di questi vigneti oggi è di 170 ha a livello nazionale, concentrati soprattutto nella parte nord-est di Caserta, nei comuni di Alife, Alvignano, Caiazzo e Castel Campagnano. Qual'è l’origine di questo nome : Pallagrello – “U Pallarel”?La risposta sta proprio nella forma dell’acino, che appare come una sfera perfetta da qui “piccola palla”; anche i grappoli sono compatti e piccoli. Una ulteriore interpretazione sull’origine del nome lo fa derivare dal pagliarello, che non è altro che il graticcio di paglia dove l’uva veniva sistemata per la fase dell’appassimento. La storia di Vigne Chigi e il suo legame con il territorio circostante L’azienda è stata fondata nel 2004, con l’obiettivo di tutelare e valorizzare le proprietà terriere dell’Avv. Giuseppe Chillemi e della moglie Laura Gianfrotta, discendente da un’antica famiglia patrizia di Capua. Il re Carlo di Borbone (poi Carlo III di Spagna) conferì alla famiglia Gianfrotta la patente di nobiltà nel 1751, unendola alle altre 13 case nobiliari capuane. Perché ha deciso, Sig. Chillemi, di realizzare il suo progetto e come ha gestito i vigneti inizialmente? I vigneti di famiglia sono situati alle pendici delle colline dell’area trebulana nel comune di Pontelatone ai piedi del Monte Friento in provincia di Caserta, zona che da secoli è rinomata per essere fortemente vocata alla viticoltura: i terreni sono argillosi con notevole presenza esotici carbonatici, siamo a 120 metri s.l.m., con una buona ventilazione ed esposizione al sole. “I proprietari hanno deciso di lasciare per molti anni questi terreni alla sola coltivazione, per prepararli al meglio: successivamente, dopo un’attenta valutazione con il supporto di un enologo esperto è nata Vigne Chigi, con l’intento di trasformare le proprie uve in vini unici “Vini da re”, in grado di esprimere la tipicità organolettiche del territorio dove la storia ha improntato il suo mito “regale”. La famiglia Chillemi si è prefissata lo scopo di mantenere vive le antiche tradizioni e riscoprire un forte e saldo legame con il passato tramite la coltivazione di vitigni autoctoni quali il Casavecchia (ultima DOP nata in Campania) ed il Pallagrello, sia nero che bianco Igt. Da quest’ultimo autoctono si ottiene anche un ottimo rosé, caratterizzato da una soffice pressatura ed un breve contatto con le bucce. Oltre a preservare gli antichi vitigni, per rafforzare la memoria storica e perpetuare l’antico legame con la casa Borbonica il Sig. Chillemi ha deciso di riprodurre sulle proprie etichette i cani da caccia raffigurati nei dipinti esposti presso la Reggia di Caserta, curando ogni minimo particolare. La storia conferma che la passione per la caccia dei Borbone delle due Sicilie li ha spinti ad allevare a corte cani di ogni razza, provenienti da tutto il regno e dai maggiori paesi europei. Gli storici raccontano che re Ferdinando IV di Napoli Borbone apprezzò talmente tanto il Pallagrello che ordinò ai suoi giardinieri di aggiungere alcune viti assieme alle altre tipologie nella cosiddetta “Vigna del Ventaglio”; anticamente il sistema di allevamento era a raggiera, mentre oggi si predilige quello a spalliera o guyot. Durante i pranzi a corte si consumavano fiumi di questo vino, che allora veniva chiamato Piedimonte rosso e Piedimonte bianco, ed era considerato eccelso. Tra i vini (da vitigni autoctoni) di sua produzione ce n’è uno in particolare a cui è più affezionato? Il Cretaccio, DOP Casavecchia di Pontelatone, ma non perché è DOP, ma perché è stato il primo, quello con più riconoscimenti. Il Casavecchia dal 2012 può fregiarsi della denominazione DOP a condizione che abbia fatto almeno due anni di invecchiamento di cui almeno uno in botte. La riserva invece ha tre anni di invecchiamento, di cui almeno due in botte. Sino al 2017 abbiamo rivendicato la DOP, e dal 2018 abbiamo rivendicato la riserva: la 2018 sarà una bottiglia celebrativa perché è stata la decima vendemmia del Cretaccio. Ci tengo a sottolineare che dall’annata 2018 in poi il Cretaccio sarà solo nella tipologia riserva. In questo delicato momento, le attività vinicole sono state fortemente penalizzate: come ha affrontato questo “blocco” e com’è riuscito a gestire la sua attività durante il lockdown ed ora durante la “fase 2”? "L’impatto iniziale è stato duro, con un forte effetto sulla nostra attività; soprattutto la preoccupazione di bloccare quello che in natura non si può interrompere, al fine di garantire tutta l’intera produzione. Affrontando questo grande problema con tenacia e spirito positivo, nei limiti del possibile siamo riusciti ad eseguire solo gli interventi in vigna, all’aperto, con tutte le precauzioni del caso. Quindi a Gennaio e Febbraio abbiamo eseguito la potatura, e a Marzo la lavorazione del terreno, che è molto importante perché si arieggia la terra riattivando la vita del suolo e favorendo la ricrescita delle radici. In Aprile abbiamo curato la palificazione per garantire al fogliame una migliore esposizione al sole e guidato i tralci lungo i fili metallici. Ora a Maggio inizieremo a curare il terreno e la vite con altre operazioni mirate di manutenzione. Abbiamo fatto tutto con la cantina chiusa, ma siamo operativi per effettuare le consegne, e fino a che tutto è fermo, dobbiamo pazientare e convivere con questo blocco lavorativo. Dal 1 Giugno sto già promuovendo degustazioni in cantina, con maggior tempo trascorso in vigna per un massimo di 6 persone con prenotazione obbligatoria. La speranza mia e penso di tutte le cantine italiane è che vi sia una veloce riapertura delle attività enogastronomiche, ristoranti e strutture enoturistiche, pur

La Romagna con il miglior vino biodinamico : Tenuta Mara

La Romagna con il miglior vino biodinamico : Tenuta Mara Risultato di un grande progetto “green” dal rispetto dell’eco-sistema ad una sostenibilità ecologica e naturale. La Tenuta Mara Biodinamica è situata su una collina del Comune di San Clemente (Rimini); a 250 mt s.l.m. Visito una cantina unica nel suo genere perché è impostata totalmente per seguire i rigidi principi della Biodinamica, con un sorprendente legame con la natura e la terra da cui sorge. Cosa si intende per “Agricoltura Biodinamica”? La biodinamica è un metodo di agricoltura ecologica, dove vengono presi in considerazione tutti gli organismi in un approccio olistico, che diventano parti integranti dell’universo. Ogni componente della vite corrisponde ad uno dei quattro elementi : radice-Terra, foglia-Acqua, fiore-Aria, frutto-Sole. In ogni fase del processo è vietato l’uso di qualsiasi sostanza chimica. Il perno di questa azienda è il rispetto della forza della natura, lasciata libera di svolgere appieno il suo naturale ciclo vitale: una sinergia che spinge il viticoltore a seguirne i ritmi e i cicli, al fine di migliorare la fertilità del suolo e la successiva qualità delle uve. Alla Tenuta Mara si vuole trasmettere la passione per le sensazioni del vino, lasciandosi ispirare dalla natura. Il “Biodinamico” non si limita solo a bandire e non utilizzare concimi chimici, pesticidi, diserbanti, dissecanti, antiparassitari di sintesi, concimi fogliari, insetticidi ed antibiotici, ma tiene conto di tutti i fattori che compongono la terra: i suoi minerali, le piante i microrganismi e gli animali, ponendo attenzione anche alle fasi lunari; come un grande organismo pulsante/vivente. Tutti questi componenti trovano il loro giusto spazio in un ecosistema dove biodiversità ed interazione tra le specie sono fondamentali. Il “Concept Green” inizia in vigna… Alla tenuta Mara il sangiovese ha trovato un terreno “fertile e sano”, perché prima di impiantare le vigne si è scelto di lavorare la terra per ben 5 anni. In più fasi è stata rimestata e addizionata solo con sostanze e nutrienti naturali, lasciando lavorare microrganismi che hanno consentito di ottenere un terreno qualitativamente eccezionale per la vite. Questo filo conduttore che unisce l’uomo all’ambiente circostante inizia nelle scelte oculate del giusto posizionamento della vigna, seguito dalla ricerca dell’adeguata collocazione di ben 800 casette e nidi per accogliere volatili, 50 casette rifugio per i pipistrelli, 15 bacheche con nidi per insetti. Il vigneto immerso in un concerto di suoni, di odori e di vita una piacevole esperienza multisensoriale. La vista si perde tra filari d’uva ordinati a spalliera (con potatura a guyot): in vigna sono state collocate sculture e opere d’arte molto particolari, e da una serie di altoparlanti posti tra i filari la musica si diffonde nell’aria, accompagnando la maturazione dei grappoli. Questo elemento è stato seriamente preso in considerazione in quanto agisce sulla crescita e la prosperità della vigna; studi affermano che la musica classica (in particolare i brani di Mozart) sia la più indicata. La Tenuta Mara, oltre alla vigna ha creato un orto biodinamico, e attraverso percorsi guidati è possibile visitare il parco piantumato di alberi ed arbusti di vario genere. Ho avuto anche la fortuna di intravedere tre meravigliosi cavalli passando davanti al maneggio. Nella cantina, idee architettoniche geniali, ambienti preziosi, tutto progettato nei minimi dettagli per un’accoglienza a 360°; elementi sapientemente posizionati per abbracciare il mondo del vino in tutte le sue fasi. La cantina, è collegata internamente da un’ampia scalinata bianca che arriva fino al piano superiore, costituito da un ambiente moderno e luminoso, reso tale dalle ampie vetrate che lo circondano: questo consente di godere di una ottima visuale sui filari delle viti e le opere d’arte che convivono con la vigna, un tutt’uno architettonico che unisce interno con esterno. Poco distante si trova un’altra struttura a vetrate immense, un luogo voluto appositamente per organizzare eventi, meeting sul tema vino, concerti. L’obiettivo di una maggiore propensione verso l’esterno ha portato Tenuta Mara a completare il progetto con un resort dove non mancano suites esclusive, zona wellness e ristorante stellato. Qui si vuol far vivere integralmente l’esperienza emozionale, sia dal punto di vista sensoriale e materiale (profumi, colori, territorio), sia dal punto di vista sociale, unendo le persone in una viva e sana convivialità. Tenuta Mara ha ottenuto la Certificazione Casa Clima Wine “La quinta classificata in tutta Italia per aver concluso positivamente tutto il processo di accreditamento.” Per ottenere questa certificazione è necessario attenersi ad un protocollo rigido che tiene conto sia dell’involucro edilizio sia di fonti energetiche alternative, la gestione delle acque, l’utilizzo di materiali ecologici, e impianti fotovoltaici per un uso consapevole e controllato dell’energia. La Tenuta Mara infatti utilizza materiali ecologici, e riduce la dispersione di calore ed energia attraverso l’utilizzo di fonti energetiche alternative. Le cosiddette “pile” di Tenuta Mara posizionate nel sottosuolo, fanno parte di un notevole impianto di geotermia, con 15 pozzi che raggiungono i 150 metri di profondità, per garantire un’efficace scambio termico, mentre in alto, sui tetti di ogni fabbricato, ci sono pannelli fotovoltaici. E’ stato creato un sistema di raccolta dell’acqua piovana efficiente, come anche il drenaggio dei terreni: una rete ben strutturata e ramificata che sfocia direttamente in un lago, da cui poi vengono recuperate le acque utilizzate per tutta la gestione del verde. Nell’ampia tenuta sono state create stazioni intermedie con pozzi di raccolta, veri bacini da cui attingere per ogni evenienza. Tenuta Mara inoltre è dotata di un bacino di fitodepurazione che svolge un’importante azione sui reflui che provengono dai processi di lavorazione del vino, sfruttando le proprietà di alcune piante. Un’attenta raccolta differenziata con ditte certificate provvede a smaltire i rifiuti che si formano in cantina. Un complesso e funzionante sistema domotico che gestisce tutti gli impianti ottimizzando e verificando i consumi delle varie aree. Questo grande progetto nato dal sogno di Giordano Emendatori, imprenditore di successo nel food, con la collaborazione di Leonello Anello (agronomo) e Leonardo Pironi (vignaiolo). Ogni elemento di questa tenuta ha una giusta identità architettonica riconoscibile. L’opera di architetti De Carolis e Muccini ha reso possibile la fusione di tutte le esigenze sia