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i migliori vini scelti per voi

Saint-Honorat, il Syrah e i monaci cistercensi

Il primo vero scorcio di primavera mi ha regalato l’opportunità di tornare in un luogo che amo, Cannes e la Costa Azzurra (qui avevo descritto le succulente ostriche da gustare in città). In particolare ho colto l’occasione per visitare l’isola di Saint-Honorat, nell’arcipelago delle Lérins, proprio di fronte alla città. Anni addietro mi ero dedicata a Sainte-Marguerite, la più grande delle isole, che è rimasta per me fonte di memorie preziose, legate a una natura selvaggia, capace di creare una connessione profonda in chi la sa ascoltare. Con piacere, ho rivissuto sensazioni dello stesso tenore, anzi amplificate da un paesaggio ancora meno antropizzato, dove piante, rocce, sole e vento dominano incontrastati. Sui 40 ettari dell’isola, emerge in tutta la sua potenza la varietà di piante, autoctone e non: cedri del Libano, piante di eucalipto il cui profumo si spande nell’aria, pini d’Aleppo e marittimi, lecci, agavi, oleandri, ginestre e lavanda. La vegetazione, che si interseca con gli aspri affioramenti rocciosi, è però anche un setting meraviglioso in cui emergono le tracce della presenza umana. Lungo i sentieri dell’isolotto sorgono la Torre Monastero, una fortezza ora in ristrutturazione (ottimo motivo per tornare qui!), due forni per palle di cannone di epoca napoleonica e numerose cappelle di origine medievale, di cui alcune letteralmente affacciate sul mare con vista sulle calette naturali dell’isola. Di certo, però, il luogo più affascinante è l’Abbazia cistercense, circondata da palme e bouganville giganti che le conferiscono un aspetto quasi esotico. Il nucleo originario risale addirittura al IV secolo, e ora è abitata tutto l’anno da 21 monaci della Congregazione Cistercense dell’Immacolata Concezione. Luogo di preghiera e meditazione, ma anche di lavoro, il monastero accoglie visitatori in cerca di pace e silenzio, e tra le varie attività che i monaci svolgono ci sono quelle legate alla terra. Gli otto ettari di vigneti fin dal Medioevo vengono allevati con processi manuali (taglio, pigiatura, vendemmia), e il risultato sono vini di apprezzata qualità. Ben sette tipologie diverse, tra cui spicca il Syrah (che costituisce la produzione più estesa), ma anche Pinot noir, Mourvèdre, Viognier, Chardonnay. L’altra importante produzione a cui si dedicano i monaci riguarda i liquori, anche in questo caso distillati con metodi artigianali (uno di questi è ottenuto da un mix di 44 piante aromatiche!). Preziosa, infine, anche la produzione limitata di olio, grazie agli ulivi che “abitano” qui da oltre 500 anni. A conclusione della passeggiata lungo l’isola, prendo posto in un angolo con una meravigliosa vista sul mare per la mia degustazione del “Saint Honorat” - Syrah. Bel colore rosso rubino, brillante con sfumature violacee. Al naso è intenso e profondo, con sentori di piccoli frutti a bacca rossa e nera (ribes, mora, lampone, mirtillo), e apprezzabili note speziate che portano al pepe nero. Potenza, calore al palato senza eccedere con una trama tannica che dona morbidezza, tenue sapidità e sorprendente freschezza. Avverto, in chiusura, una buona persistenza. Se dovessi abbinarlo a un cibo, consiglierei senz’altro una terrina di anatra con erbe provenzali. Riprendo il traghetto verso Cannes, getto un ultimo sguardo alle vigne, all’Abbazia, alle acque che da millenni accarezzano questo magnifico scoglio della Costa Azzurra. E già sento salire la voglia di tornare, come un viandante d’altra epoca, a respirare di nuovo l’aria fatta di profumi e silenzi di Saint-Honorat. Ti è piaciuto l’articolo? Puoi iscriverti al servizio di notifica o lasciare un commento!

Cristo di Campobello. Uomini e terra hanno un’unica vocazione: quella per il vino

Cristo di Campobello Uomini e terra hanno un’unica vocazione: quella per il vino Vignaioli da decenni, nel 2000 i Bonetta decidono di iniziare a creare i propri vini dalle loro vigne. Nasce l’azienda Cristo di Campobello: il successo arriva presto, e non poteva essere altrimenti, con l’esperienza, la dedizione e un territorio così straordinario. Ogni volta che visito la Sicilia non riesco mai a immaginare il modo nuovo con cui saprà stupirmi. E ogni volta ci riesce. Al punto che parlare di “bellezza” per descrivere questa terra è diventato quasi scontato, riduttivo, inadeguato. È necessario insinuarsi nelle pieghe della lingua per scovare parole ancora dense di significato, adatte a raccontare di uomini e donne, passato e presente, est e ovest di questi luoghi. Sono in Contrada Cristo, a Campobello di Licata, città affacciata sul Mediterraneo e non lontano dalla Valle dei Templi di Agrigento. E sono qui per lasciarmi inebriare dalla storia di questo luogo, dalle vicende di chi lo abita da secoli e dai vini che qui nascono per essere apprezzati in tutto il mondo. Il nome stesso della contrada è frutto di un episodio che ha del mitologico, se non del mistico. Infatti, un tempo si chiamava Favarotta, ma ha poi preso il nome di contrada “Cristo” grazie a un crocifisso: un Cristo ligneo fatto realizzare più di 200 anni fa in seguito ad una grazia ricevuta da un contadino che lavorava queste terre. Il Cristo di Campobello da sempre è stato meta di fedeli che vengono qui a pregare o lasciare un fiore e ogni anno, il 3 maggio, viene organizzato un lungo pellegrinaggio di devoti che, attraversando le campagne e i vigneti, arrivano fino ai piedi del Cristo. A pochi metri sorge il Baglio, il vecchio palmento, attorniato da filari di vigne che decorano queste colline. L'azienda A un’altitudine media di circa 260 metri sul livello del mare, dolci promontori a perdita d’occhio ospitano le vigne dell’azienda intervallate da macchie verdi di ulivi secolari. Dopo decenni trascorsi a coltivare vendemmie, nel 2000 prende vita l’idea del Cristo di Campobello, grazie alla consapevolezza della famiglia Bonetta delle grandi potenzialità della propria terra e delle proprie uve. Per descrivere le caratteristiche del territorio, meglio affidarsi alle parole dell’azienda, da cui traspaiono attenzione, perizia e passione. “Trentacinque ettari di vigna della Sicilia agrigentina, organismo unico di dieci microaree, proprietà accorpata di cinquanta ettari a Campobello di Licata. Terreno profondo, misto calcareo e gessoso, di giacitura collinare, tra i 230 e i 270 metri sopra il mare e a 8.000 metri dalla costa. Prevalentemente 5.000 piante per ettaro tutte da primigenio patriarcale della propria terra-madre e tutte vendemmiate a mano, in piccole cassette”. Il modo in cui poche righe riescono a trasmettere professionalità e amore è indicativo del rispetto e della gratitudine per la terra e per l’uva, con le quali ogni uomo e ogni donna che lavora in questa azienda stabilisce un rapporto personale, intimo e, soprattutto, paritetico: una vera alleanza, quella fra essere umano e terra, requisito ineludibile per creare i vini d’eccellenza che nascono al Cristo di Campobello. La Cantina e i vini Ad accompagnarmi nella scoperta delle meraviglie dell’azienda è Irene Muratore, scrigno di racconti e aneddoti sulla famiglia e la Cantina. Nelle sue parole e nell’atmosfera che si respira in questo luogo emerge davvero qualcosa di mistico: spiritualità, fede, legame con la terra sono tutti aspetti di un unico modo di intendere la vita e il rapporto simbiotico e identitario tra persone e territorio. “Il miracolo avviene perché c’è una terra vocata baciata dal Signore per produrre uva”. E in effetti l’insieme di clima e terroir è straordinario: il sole e i venti del mare da un lato, e un suolo gessoso dall’altro, che ha una caratteristica molto importante, quella di comportarsi come una spugna che assorbe l’acqua piovana d’inverno per poi rilasciarla gradualmente alle piante quando ne hanno bisogno, danno alle uve un pH basso e un’alta acidità. La produzione viene limitata all’andamento dell’annata, la vendemmia è interamente a mano solo dopo la perfetta maturazione, la vinificazione individuale per ciascun vigneto. I vitigni coltivati sono Nero d’Avola, Syrah, Grillo, Insolia, Catarratto e una piccola parte di Chardonnay. In tutto si producono nove vini fermi e due spumanti. Gli altri vini hanno nomi che derivano dal dialetto siciliano: l’Adènzia (bianco, blend di Grillo e Inzolia, e rosso, blend di Nero d’Avola e Syrah) nasce dall’espressione siciliana “dare adènzia” cioè “prestare attenzione” al nostro lavoro, quotidianamente, rispettando al massimo la terra e le vigne. Lalùci è il Grillo in purezza, la Luce, quella speranza che deve sempre illuminare il nostro percorso anche nei momenti più bui. Il Grillo è un vitigno autoctono di questa zona che esprime al meglio le peculiarità del territorio diventando oggi il vino bianco che più rappresenta la Sicilia. Dal Nero d’Avola in purezza nasce Lu Patri a rappresentare, appunto, il Padre dei vitigni siciliani, ma anche un omaggio ad Angelo Bonetta dai figli Carmelo e Domenico, oltre che il richiamo spirituale al Padre di ogni cosa. Infine, il Syrah in purezza, l’etichetta Lusirà dal modo in cui in dialetto viene chiamato questo vitigno e lo Chardonnay Laudàri dal siciliano “lodare il Signore”, perché il vigneto dello Chardonnay si trova nella collina dove originariamente era posizionato il Cristo e i fedeli si recavano lì a “lodare il Signore”. Irene mi accompagna nella parte interna della cantina, dove si svolgono le fasi di lavorazione, vinificazione e affinamento delle uve. Oltre ai silos in acciaio, quattro grandi botti da 110 ettolitri (in acciaio e rovere) consentono di affiancare al metodo tradizionale dell’affinamento in legno le possibilità offerte dalla tecnologia (rimontaggi, micro e macro ossigenazioni e controllo temperature). Visitiamo anche la tradizionale bottaia dove completano l’affinamento in barrique di rovere i rossi Lu Patri e Lusirà e il bianco Laudàri. Per la famiglia Bonetta ogni bottiglia di vino è un mezzo prezioso per veicolare l’identità del territorio e la sua storia. Anche il bianco perlato delle etichette rievoca il gesso dei terreni. Una vera opera

Cesenatico, degustazione locale con Trebbiano d’Abruzzo

Trovarsi a passeggiare lungo il Porto Canale dell’antico borgo marinaro di Cesenatico è un invito ad un momento di relax multisensoriale, quando all’imbrunire dal lungo e sottile specchio d’acqua che raggiunge sfumature dal verde cupo al nero, si riflettono con chiarezza i dettagli delle vele colorate e tipiche delle imbarcazioni che ogni famiglia di pescatori caratterizzava per distinguersi. Il fascino del canale “leonardesco” la cui mappatura è circondata dal mare, fa da spartiacque alla veneziana ai lati di levante e di ponente, dove sono adagiate casine dal simpatico ornamento cromatico, con le finestre piene di fiori a sbalzo: a dividerle ordinatamente sono le diramazioni di stretti vicoli e stradine lastricate a ciottoli, alternate a piazzette pittoresche (quella delle Conserve ha una sua storia unica), con le botteghe e le bancarelle che offrono un’ampia esposizione di oggettistica artigianale, con prodotti alimentari del territorio che richiamano in maniera univoca la cultura, la tradizione e la vera storia marinara del borgo. Questo luogo di accoglienza romagnola per la sua particolare struttura architettonica richiama anche la poesia: a tal proposito nel centro storico si trova Casa Moretti oggi divenuto museo nel cui giardino si organizzano interessanti letture delle opere del poeta crepuscolare Mauro Moretti, un’occasione per plasmarsi in un’atmosfera surreale. Arte e cultura gastronomica danno vita a manifestazioni e mostre tutto l’anno. Nell’aria profumo di mare…. con un’offerta di ristorazione ricca per offrire ai visitatore il pesce fresco dell’Adriatico. Affacciato sull’incantevole specchio d’acqua del canale si trova il Ristorante La Buca della famiglia Bartolini, che è riuscita a fare un ottimo intervento di ristorazione, tra i più rilevanti in Romagna, attraverso le attuali cinque attività. Oggi sono focalizzata sulla Buca, la cui storia inizia nel 1985 dal nonno Stefano seguito dal padre Marcello Bartolini. Attualmente il nipote Andrea ultima generazione svolge un ruolo importante, concentrato e determinato nell’ immettere nuovi concept e format originali. La Buca si presenta in netto contrasto con il vociare del fuori; si entra in un ambiente rinnovato ed etereo, fatto di luci soffuse, arredato con grande gusto ed eleganza, dai suoni ovattati sembra proprio di essere in una cambusa . Nel 2013 il locale ha meritato una stella Michelin e da allora la mantiene, poi ha subito una trasformazione migliorativa dotandosi di ben due cucine a vista e un maggior spazio di accoglienza, oltre ad un nuovo concetto nelle scelta delle bottiglie che compongono la cantina, curata oggi dal Sommelier Mauro Donatiello (con me in foto), che dal suo arrivo si è concentrato sulle bolle, portando fino a 120 champagne le presenze nella carta dei vini. IL MARE NELLA SUA ESSENZIALITA’ : la filosofia della famiglia Bartolini. Con a capo lo chef Gregorio Grippo dal 1986, che personalmente si occupa di reperire ogni giorno il pesce freschissimo al locale mercato ittico, l’obiettivo dichiarato è seguire le “stagioni del pesce” ed offrire un percorso degustativo nitido e pulito. Il 75% dei prodotti cucinati viene proprio dall’Adriatico, questo per testimoniare un patrimonio ittico spesso ingiustamente sottovalutato. Scelgo il Menù Essenziale, e tra le portate che ho gradito di più c’è il piatto storico che rappresenta la firma dello chef: Carpaccio di Ricciola con artemisia, salsa tonnata alla mandorla e riso croccante. Delicato e armonico nelle diverse consistenze. Un’esplosione di sapori ben combinati tra loro nella seconda portata: Sottobosco di Mare, frutti di mare adagiati su di una crema di porro, fiori di zucchine, tartufo, polline e silene. Superlativi i Cappelletti con all’interno ripieno di formaggi freschi del territorio accompagnati da crudo di Gambero Rosso e levistico (sedano di monte). Wine pairing di pari livello ad una cena che non lascia spazio a nessuna sbavatura, scelgo il rinomato Trebbiano d’Abruzzo di Emidio Pepe 2019. Un vino straordinario e di grande espressione, eleganza ed autorevolezza, ottenuto da una varietà antica ed indigena delle Colline Teramane. Sicuramente longevo con grande capacità di evolversi nel tempo. Intensità e complessità olfattiva si snocciolano verticalmente in sentori di mele, frutta secca, con una punta di mandorla, erbe officinali, foglia di pomodoro, funghi. Sorso secco e pieno, molto appagante ed avvolgente sorretto da una buona struttura: ripercorro in bocca gli identici profumi percepiti, con in più una gradevole nota salina e minerale che donano una freschezza equilibrata. Lunga la persistenza gusto olfattiva che rende armoniosamente appagante e memorabile questa degustazione. La serata è giunta al termine, lancio un ultimo sguardo sulla cartolina di Cesenatico così luminosa e contagiosa ma questo è solo un arrivederci! Ti è piaciuto l’articolo? Puoi iscriverti al servizio di notifica o lasciare un commento!

CHAMPAGNE BARBIER LOUVET

Champagne Barbier Louvet Nel versante meridionale della montagna di Reims è situato il piccolo paese di Tauxières Mutry. In Val de Livre la proprietà vinicola Champagne Barbier Louvet continua la sua opera magistrale di Vigneron con la settima generazione, rappresentata da David e la sorella Cèline, per produrre champagne secondo la più pura tradizione francese. I loro champagne sono ottenuti esclusivamente da vitigni “Pinot Noir” e “Chardonnay”. Facciamo un passo indietro ripercorrendo la storia familiare, che ci porta nel 1835, quando il fondatore Théophile Blondel comprò le prime viti, ancora oggi coltivate: si perpetua la tradizione da allora, con tutti gli insegnamenti e i segreti di famiglia, per preservare appieno l’autenticità e il carattere dei loro champagne. Nel 1970 il marchio Barbier-Louvet è stato creato dai cognomi dei due genitori, e nel 2007 i figli Cèline Barbier Poulain e David B. hanno rilevato la tenuta: da allora ad oggi l’azienda vinicola ha registrato una crescita esponenziale, con possedimenti di vecchie vigne nei più prestigiosi Grand Cru della Montagne de Reims: da Bouzy ad Ambonnay con piccole parcelle di valore a Verzy, Louvois e a Tauxieres Premier Cru. Il terreno, caratterizzato dalla conformazione gessosa del suolo, è l’elemento fondamentale che consente un ottimo risultato nel riprodurre importanti cuvèe, con un perfetto assemblaggio di Pinot Noir e Chardonnay. Assolutamente eccellente è il risultato del meticoloso lavoro di questi Vigneron Indépendant, svolto a tutto tondo partendo dall’attenzione maniacale in vigna, con la cura estrema e l’esperienza acquisita e tramandata durante le varie fasi delle lavorazioni in cantina fino all’imbottigliamento, e delinea negli champagne di questa maison una pregevole nettezza e pulizia olfattiva, accompagnata da un grande equilibrio. Degustazione Appena arrivata la consegna, ho deciso di concedermi subito uno Champagne Time… Stappando (dopo averla adeguatamente raffreddata a temperatura di servizio) la Cuvèe d’ensemble Brut Grand Cru, uno dei prodotti di punta della maison, la cui produzione si aggira a 8.000 bottiglie all’anno, con una selezione di uve scelte tra quelle provenienti dai migliori vigneti aziendali. La composizione è 60% pinot nero e di chardonnay al 40% di prima spremitura (solo il mosto fiore). Il 40% di Vins de Réserve (di 2 o più annate precedenti) accompagna il 60% del vino dell’annata. Vinificazione solo acciaio per le basi, con malolattica svolta, ed una sosta sui lieviti non inferiore ai 42 mesi. Alla sboccatura segue un’aggiunta di “liqueur maison” preparato all’antica (zucchero e vino) per un dosaggio finale di 8 gr/litro. Visivamente questo champagne splende in un giallo paglierino acceso e carico, con un perlage fine e persistente che abbraccia la mia flute. Grande intensità olfattiva, in espansione di profumi di mela e frutti a polpa gialla, fiori ed uno speziato sul finale. La sorpresa è al sorso pieno e ricco, che conferma la buona struttura di questo champagne, che si contrappone molto bene con la freschezza floreale dello chardonnay, e note gessose sul finale. Abbinamento consigliato: con una zuppa di crostacei in guazzetto. Ti è piaciuto l’articolo? Puoi iscriverti al servizio di notifica o lasciare un commento!

CHAMPAGNE PAUL LEBRUN: L’ESSENZA DELLO CHARDONNAY

Champagne Paul Lebrun: l’essenza dello chardonnay Paul Lebrun “récoltant-manipulant” dal 1902 specialisti dello chardonnay a Cramant emblematico grand cru della Cotes des blancs nella Marna. La Maison Lebrun porta avanti una lunga storia di esperti vignaioli; oggi la gestione è di Nathalie e Jean Vigner, la prima in cantina tra pupitres e barriques, il secondo a sovrintendere il lavoro nei vigneti. Una nota da evidenziare è il terreno dove sorgono queste vigne di chardonnay; in esso sono incastonate vene di gesso che lo rendono unico. Gli attuali proprietari hanno recentemente investito acquistando parcelle nei sobborghi di Sèzanne, ai confini meridionali dello champagne dove i suoli hanno una natura alluvionale con presenza di molto ciotolame. In tutte le loro tipologie di cuvée solista assoluto è lo chardonnay, e ogni anno l’obiettivo di Nathalie e Jean è trovare il giusto compromesso tra le note citrine e minerali delle uve di Cramant e le note di grassezza e rotondità di quelle provenienti da Sèzanne. Degustazione Grande Reserve - Blanc de Blancs - Brut. Questo champagne include le uve prominenti sia da Cramant (per la maggior percentuale) che da Sèzanne. Cuvée di base con il 70% di vino di annata e l’aggiunta 30% di Vins de Réserve, tutto acciaio inox, matura 26 mesi sui lieviti. I calici si illuminano di un giallo paglierino carico tendente al dorato, brillante e luminoso. Ammiro ed apprezzo il perlate persistente e fine. Al naso prevalgono note sgrumate e fruttate contorniate da fiori gialli e percezioni minerali. Al sorso è elegante dove la morbidezza ben si bilancia alla freschezza delle note sgrumate e gessose. Questa maison produce Blanc de Blancs fini ed eleganti di bella sapidità gustativa. Ti è piaciuto l’articolo? Puoi iscriverti al servizio di notifica o lasciare un commento!

Clos de l’Amandaie – Languedoc

Nella cittadina di Aumelas a 25 km a nord-ovest di Montpellier la famiglia Peytavy porta avanti da ben sei generazioni la produzione dei propri vini; nel corso del tempo si sono intersecate e “fatte tesoro” esperienze contadine con importanti interventi di modernizzazione. Il 2002 fu un anno decisivo per la cantina perché iniziò la gestione dell’azienda da parte di Philippe e Stéphanie Pytavy; nuovi investimenti e costante impegno su ogni settore specifico nonché seguire un rigido disciplinare nell’ambito dell'eco-sostenibilità che gli permise nel 2018 la certificazione Biologica su 25 ettari vitati. Interessante è la posizione dei loro vigneti situati nella parte più fresca sulle pendici settentrionali dell’altopiano di Aumelas, la cui denominazione è Grés de Montpellier. E proprio questa freschezza del clima e l’altitudine più elevata ad influenzare significativamente i loro vini apportando finezza e complessità. Stéphanie e Philippe hanno voluto valorizzare le qualità dei loro vini attraverso l’arte del famoso calligrafo Shan Sa commissionandogli la creazione dell’identità visiva della tenuta risaltando così l’eleganza e la purezza dei loro vini. Proprio attraverso il mandorlo, albero emblematico del paese, testimone centenario che confinava con le frazioni di Aumelas che nacque l’identità del feudo. Direttamente dalla mia cantina degusto l'Amandaie Rouge Cuvée emblematica della cantina - Appellazione “Grés de Montpellier” AOP Languedoc. 2017 - 14%. I vitigni che lo compongono sono: Grenache (33%), Syrah (33%), Carignano (25%), Cinsault (9%). Rosso porpora compatto con riflessi violacei. Si percepisce intensità e finezza al naso costituita da una “palette” aromatica complessa dalla combinazione di spezie (pepe nero), frutti di bosco a bacca nera (mirtillo, more) ed erbe aromatiche (rosmarino). Al sorso la struttura è ben delineata dall’asse freschezza e sapidità, dove i tannini sono raffinati e fini armoniosamente donano una buona persistenza aromatica che si chiude con un sentore mentolato. Consiglio l’abbinamento con un carré di agnello al timo o filetto di manzo cotto al coccio con mix di spezie. Ti è piaciuto l’articolo? Puoi iscriverti al servizio di notifica o lasciare un commento!

Tenuta Venissa, il sogno dorato della famiglia Bisol: a Venezia rinasce la Dorona.

La laguna di Venezia, magica e suggestiva, è lo sfondo di una storia straordinaria. Quella della famiglia Bisol e della Dorona, un vitigno quasi scomparso e rinato in un ambiente ostile da cui trae la forza per generare vini di grande personalità Se chiedessi al migliore degli sceneggiatori di scrivere una storia basata su tre soli ingredienti, il vino, il coraggio e Venezia, beh sono certa che scriverebbe la storia di Venissa e della sua Dorona. Le vicende di questa Cantina, infatti, sembrano il frutto di un intreccio studiato ad arte proprio intorno a quei tre elementi: il mondo dell’enologia, la determinazione di chi, ostinato, decide di scommettere su un progetto apparentemente irrealizzabile, e il fascino di un’avventura imprenditoriale che nasce a Venezia, magnifica e rischiosa come ogni centimetro quadrato della terra su cui sorge. Con queste premesse e tanta curiosità, una domenica mattina di fine settembre ho deciso di prendere il traghetto che da Fondamente Nove attraversa la parte settentrionale della laguna verso le isole. Il sole era appena accennato e più il traghetto si allontanava e la nebbia saliva, più lo scenario magico che solo questi luoghi sanno creare lasciava intravedere San Michele e il suo straordinario cimitero, le fornaci del vetro di Murano e poi tanto mare. Quando il borbottio del vaporetto ha iniziato a scemare, l’isola verso cui ero diretta è comparsa. Siamo a Mazzorbo, tra Burano e Torcello, dove la trama disegnata da canali, isole, scogli e approdi crea un mosaico a cui verrebbe voglia di dar forma ricongiungendo ogni tessera. Dal 2001, proprio su quest’isola, è rinato un sogno: quello della famiglia Bisol, produttrice di vini da 500 anni e 21 generazioni, che ha voluto accettare la sfida di riportare in vita un vino, e un vigneto, destinati all’oblio. Su un lembo di terra della Venezia Nativa, sorgono oggi i vigneti di Tenuta Venissa, circa un ettaro di terra all’interno di una proprietà un tempo appartenuta a un ordine monastico, le cui uniche tracce, scomparsa la chiesa che dominava l’insediamento, rimangono il campanile e il muro di cinta. Una vite rinata da se stessa A raccontarmi la storia di Venissa è Matteo Turato, che mi guida anche nella visita lungo l’intera tenuta. A Venezia la vite è di casa da secoli, e fino al XII secolo se ne potevano trovare piante anche in piazza San Marco. Grande merito per l’avvio e la diffusione delle coltivazioni agricole va attribuito agli ordini religiosi, che da sempre tra le proprie attività hanno previsto il lavoro della terra, e le viti non facevano eccezione. Nell’Ottocento, all’interno delle dinamiche innescate dalle conquiste straniere e dalla diffusione del pensiero laico e illuminista, molti ordini furono soppressi, e i loro possedimenti espropriati. A questo, nel corso del secolo, si aggiunse il massiccio spopolamento delle zone rurali, favorito dai processi di urbanizzazione e industrializzazione. Risultato fu il pressoché totale abbandono di molte attività agricole. In particolare pochi furono coloro che decisero di proseguire l’allevamento delle viti in laguna: almeno fino al 1966, anno di una delle peggiori inondazioni mai subite da Venezia e dalle sue isole, i cui terreni rimasero sommersi per dieci giorni. Anche l’ultimo spiraglio di luce per i vigneti si era spento. A riaccenderlo ci ha però pensato Gianluca Bisol, venuto fortuitamente in contatto con qualche pianta di vite sopravvissuta a Torcello grazie alla maggiore altitudine (3 metri in più) del suolo rispetto al mare, e quindi ai minori danni causati dall’acqua alta. Durante una visita sull’isola di Torcello il suo occhio esperto riconobbe una pianta insolita, rara, mai vista altrove. Ricerche e analisi portarono a capire che si trattava della Dorona, vitigno autoctono praticamente scomparso, ma di cui col tempo fu possibile recuperare diverse decine di piante, anche grazie all’aiuto di un coltivatore locale, il signor Gastone, che ne aveva serbate ben 88. Reinserita attraverso lunghi passaggi burocratici tra i vitigni “autorizzati” e contro l’opinione di diversi agronomi che ne decretavano l’impossibilità di sopravvivenza, la Dorona, unico vitigno autoctono del territorio, rinasceva grazie alla famiglia Bisol. I vini della Dorona Il vigneto è stato ripiantato tra 2006 e 2007. La forza e la peculiarità della Dorona risiedono proprio nella grande capacità di adattamento a un terreno e un clima ostili: acque iodate, quindi salate, e umidità tutto l’anno farebbero infatti sopperire ogni altra pianta, ma non lei, che con fatica ancora oggi dona i propri frutti e permette di produrre vini di grande personalità. Per il Venissa la vendemmia manuale avviene nella seconda metà di settembre. Il trasporto dell’uva trae beneficio dall’uso del ghiaccio secco (azoto a -20°C) per preservare l’integrità e le caratteristiche organolettiche dei grappoli nella fase di movimentazione in barca dalla tenuta alla terraferma, e da lì alla cantina, nella zona dei Colli Euganei. Il mosto fermenta con macerazione sulle bucce di almeno 30 giorni in acciaio, a una temperatura controllata di 16-17°C. La macerazione sulle bucce si pratica per mantenere la tradizione veneziana: a Venezia infatti non era possibile avere cantine sotterranee e fresche temperature a causa dell’acqua alta. Era quindi indispensabile macerare la Dorona per strutturarla grazie alle sostanze antiossidanti presenti nella buccia e nei semi. Infine il vino affina 48 mesi in botti di cemento con interno in fibra di vetro e 12 mesi in bottiglia. La produzione annua è di circa 3000 bottiglie. L’altro bianco della Casa è il Venusa, nato nel 2018, che affronta una macerazione più breve, tra i 3 e i 7 giorni. La differenza tra Venissa e Venusa sta in pochi centimetri, quelli che costituiscono il dislivello presente all’interno dell’appezzamento, un paio di palmi che si riflettono in una marcata differenza in termini di acqua e iodio presenti nel terreno. Ecco perché le uve del Venissa sono uve concentratissime, grazie alle radici “immerse” nell’acqua della laguna. Per completare il panorama, la tenuta produce anche un Rosso Venissa, dall’appezzamento sull’isola di Santa Cristina (circa 3 ettari). I vitigni sono Merlot (82%) e Cabernet Sauvignon (18%). Macerazione di 24 giorni e affinamento di 12 mesi in barriques di rovere

Cantina Duca Carlo Guarini: vini con 900 anni di storia

La visita per degustare i vini alla tenuta Duca Carlo Guarini è stato un vero e proprio viaggio: nella storia di una famiglia, nella geografia del Salento, nelle tradizioni del Mezzogiorno più sincero e amabile Quella dei vini e della famiglia Guarini è una storia che si è spesso incrociata con la Storia - quella vera, con la maiuscola - attraversandola e non di rado determinandone tragitti e svolte. Le origini del casato risalgono lungo i secoli a mille anni fa, quando la famiglia di origine normanna arrivò nelle Puglie (anno Mille, o giù di lì) e i suoi cavalieri, al seguito degli Altavilla, diedero il loro contributo alla conquista e all’unificazione del Regno di Sicilia. Tra gli esponenti della dinastia ci sono stati “feudatari, guerrieri, cavalieri, ammiragli, uomini di chiesa, di lettere, di legge, politici e poeti” e molti di essi ricoprirono importanti funzioni nei regni Normanno, Svevo, Angioino, Aragonese e Borbonico. Così come furono protagonisti di vicende legate a personaggi di cui oggi leggiamo sui libri: la principessa Maria Giuseppa, sposa di Luigi Ferdinando e madre di Luigi XVI, San Francesco d’Assisi, che di ritorno dalla Terra Santa dimorò in una tenuta donatagli dai Guarini, e Gioacchino Murat, cognato di Napoleone e re di Napoli, cui è dedicato uno dei vini dell’azienda, solo per citarne alcuni. Quando si parla di tradizioni, queste non sempre affondano le proprie radici in un passato prestigioso. Le vicende dei Guarini, invece, sono intrise di tradizione, oggi raccolta e tramandata dal Duca Giovanni e dai suoi figli, che hanno saputo darle valore, infonderla nelle attività dell’azienda agricola e arricchirla con le innovazioni del presente per trasmettercela nei profumi, nei colori e nei sapori dei vini e degli altri prodotti artigianali. La Cantina Siamo a Scorrano, nel centro del Salento, a metà fra le sponde adriatica e ionica che delimitano il tacco della penisola. La tenuta si apre attorno al palazzo ducale Guarini, residenza della famiglia, le cui vigne si estendono però per oltre 700 ettari tra le province di Lecce e Brindisi. In plancia di comando ci sono Giovanni e i due figli Carlo e Roberto, la cui preparazione e formazione diversificata è un altro degli ingredienti del successo e della qualità dell’azienda. L’architettura del complesso è sorprendente, ma due sono le chicche in grado di aumentarne il fascino. La prima è senza dubbio il giardino pergolato dove gli ospiti possono degustare - tra filari di colonne - i vini della cantina (e molte altre prelibatezze), attorniati da alberi di agrumi e profumi mediterranei. Un luogo dove si avverte il distacco completo con il mondo esterno. Così come netto è il distacco non solo dall’ambiente ma anche dal tempo presente nell’altro scrigno “segreto”: la grotta ipogea risalente al ’500, dove si trovava il frantoio e dove alcuni dei vini completano l’affinamento. Un anfratto nascosto sotto il palazzo, un luogo quasi mistico, in cui la storia alle spalle della famiglia sembra trasudare direttamente dalle spesse mura, annerite dal tempo e per la poca luce che viene fatta filtrare fin quaggiù per proteggere la temperatura, l’umidità e l’illuminazione ideali per le bottiglie. La mia visita alla Cantina Duca Carlo Guarini si rivela una sorpresa continua. Il racconto delle origini, delle lavorazioni, dei personaggi mi conduce in un crescendo di meraviglia alle degustazioni, e alle ancor più interessanti spiegazioni che le accompagnano. “La nostra missione è tutelare il patrimonio viticolo salentino, quello del Negroamaro, del Primitivo, della Malvasia nera. Così nascono i nostri vini, da vitigni autoctoni vinificati in rosso, in rosato e in bianco. Tutti in purezza e biologici certificati” I Vini Se dovessi scegliere un aggettivo per definire questi vini di antica nobiltà, tutti rigorosamente biologici, in grado di trasmettere tradizione, passione e innovazione, sceglierei “sincerità”, una dote rara, e perciò tanto più preziosa. Le etichette prodotte sono tante, tra cui Murà, Boemondo e 900, ognuna delle quali nasconde una storia. Come quella legata al Murà (4 ettari a Sauvignon introdotti nel 1989), in onore di Gioacchino Murat e della firma - scritta proprio così, all’italiana - che con la pietra del suo anello incise su una specchiera nella dimora leccese dei Guarini. Nel 2000, invece, per festeggiare la fine del millennio, racconta il Duca Carlo Guarini, volevano fortemente produrre un Primitivo di alta qualità. “Per rappresentare la potenza e la complessità di questo vino ci venne in mente un personaggio, di grande fascino, legato alla nostra storia: Boemondo d’Altavilla, principe di Taranto, primo figlio di Roberto il Guiscardo, il Normanno conquistatore della Puglia. Durante l’assedio della città di Lecce nel 1065 Boemondo, seppur vincitore, fu molto colpito da alcuni cavalieri che l’avevano difesa valorosamente, tra i quali il nostro Ruggiero Guarini. Boemondo, come segno di stima, chiese loro di diventare suoi compagni d’arme nell’avventura della Prima Crociata”. La linea 900 comprende i vini nati per celebrare i 900 anni di vinificazione della famiglia (dal 1114), vini in edizione limitata prodotti solo quando l’annata lo merita. E finalmente lui, il Negroamaro Tra il racconto di un aneddoto del passato e dei progetti per il futuro dell’azienda che il Duca Carlo mi regala, la conversazione devia sul Negroamaro, il vero grande protagonista, attorno al quale ruota gran parte della produzione di quest’azienda salentina. In particolare, stappiamo e degustiamo un Taersìa Negroamaro in bianco IGT Puglia biologico 2020 (12,5%), che si è aggiudicato più di un riconoscimento tra gli addetti ai lavori. Osservo un bel giallo paglierino intenso, brillante. Apprezzo all’olfatto i sentori di frutta a pasta bianca e fiori bianchi con un’apertura su note agrumate, per poi virare su erbe aromatiche quali il rosmarino e la menta. Curiosa di passare all’assaggio, avverto immediatamente un grande bilanciamento tra acidità, freschezza, sapidità; caldo e morbido, ricco e di buon corpo e mineralità sul finale, questo Taersìa Negroamaro in bianco trasmette al palato una netta prevalenza di agrumi e zenzero che ne caratterizzano la lunga persistenza. L’abbinamento che individuo è con uno spaghetto alle vongole veraci freschissime e “gamberi rossi” di Gallipoli. Tra le altre produzioni a base Negroamaro ci

Tenuta Santini

Vini e Cantine di Romagna: un focus sulla mia terra Tenuta Santini Trasudano passione le parole di Sandro Santini, da 20 anni al timone dell’azienda di famiglia che sul Sangiovese e sui Colli di Rimini ha costruito la propria storia e la propria missione. Dalla cantina alla vigna, dal racconto della storia di famiglia alla degustazione, Sandro sprigiona genuinità e rispetto per una tradizione, un territorio e un lavoro che negli anni ’60 suo nonno avviò, e che resta il punto di riferimento. Omaggiare quella storia, valorizzarla e traghettarla verso nuovi traguardi è ciò che la Tenuta Santini sta facendo. Sandro è presidente della "Strada dei Vini e dei Sapori dei Colli di Rimini", al cui interno guida anche il progetto Rimini Rebola: da 3 anni a questa parte il gruppo di produttori locali - arrivati a 17 - si adopera per la divulgazione della Rebola, menzione tradizionale che rappresenta un vino bianco semi-aromatico e che può essere solo "Colli di Rimini". All’arrivo in questo storico caseggiato rosso pompeiano mi accoglie una vista panoramica sull’anfiteatro di vigne di proprietà, esposte a sud/sud-ovest, che rivestono colline soleggiate e basse, a poco più di 100 metri di altitudine, e accarezzate dal vento tipico di “garbino”. Dei complessivi 28 ettari, 22 sono vitati con predominanza Sangiovese, da cui 𝐓𝐞𝐧𝐮𝐭𝐚 𝐒𝐚𝐧𝐭𝐢𝐧𝐢 ricava 3 dei suo vini più importanti: "BEATO ENRICO", "CORNELIANUM" E "BATTARREO". "BEATO ENRICO" è stato il primo e attualmente se ne producono 20.000 bottiglie all’anno. La curiosa storia sul nome di questo vino, un Sangiovese in purezza a cui un passaggio in legno regala un’evoluzione particolare, ce la racconta Sandro nel video. Di gradazione alta, rappresenta il cuore dell’azienda, simbolo di uno stile e di una storia fedele a sé stessa. Tra le varie evoluzioni del progetto enologico, "CORNELIANUM" (dal nome latino di Coriano) è un Riserva, mentre "BATTAREO" è il vino che potenzialmente, nelle parole di Sandro, può dar luogo a una grande storia enologica, con l’introduzione del taglio bordolese. L’ultima, ambiziosa scommessa della Tenuta Santini, “𝐎𝐑𝐈𝐎𝐍𝐄” È proprio come la costellazione più famosa del cielo che intende brillare "ORIONE", il più recente dei progetti enologici di cui parla Sandro Santini, titolare dell’omonima Cantina. Legata alla grande soddisfazione per questa nuova “storia” enologica appena nata, scorgo anche una certa emozione nelle sue parole. L’anno di avvio è il 2015, quando vede la luce la prima bottiglia di "Orione". Sandro me lo descrive come un "Sangiovese che subisce il territorio, ma proprio per questo ne è anche un grande interprete". Tramite il Sangiovese riusciamo a leggere il territorio, a testimoniarlo e a costruire un racconto per il consumatore”. Con "Orione", Tenuta Santini ha voluto creare il suo primo "CRU", unico tipo di Sangiovese, proveniente da unica vigna, che, si auspica, diverrà a breve sottozona Coriano: a simboleggiare la purezza del vitigno, estrema garanzia del rispetto delle materie prime di base, e soprattutto per dare più strumenti di comprensione e raffronto per i consumatori e i degustatori, i quali attraverso un disciplinare riescono a intercettare e comprendere meglio le caratteristiche tipiche, anche per differenza rispetto ad altre zone e altri comuni limitrofi. Una chiave di lettura, quindi, che doni unicità con parametri ben precisi. In degustazione "Orione", che Alessandra Santini versa nei calici, veste un bel rosso rubino brillante, al naso è intenso e fine, netti e puliti sentori di frutti di bosco che a loro volta si intersecano con un floreale di viola e rosa canina per slittare su un leggero finale speziato. Al palato è, in primis, avvolgente; calore e morbidezza si bilanciano bene a sapidità, freschezza e tannicità non invadente, per un esito molto equilibrato. Credo che “𝐎𝐫𝐢𝐨𝐧𝐞” sia un vino già eccellente, ma che sarà in grado di dare il meglio di sé negli anni a venire. In abbinamento non posso che appellarmi alla tradizione locale, quindi un piatto di tagliatelle fatte in casa con ragù e piselli. Cari lettori, vi lascio con il video sulla Tenuta Santini: Ti è piaciuto l’articolo? Puoi iscriverti al servizio di notifica o lasciare un commento!

TENUTA DI CASTELLARO, VINI CHE SANNO RACCONTARE

Un progetto “giovane” ma ambizioso, che ha saputo accogliere e valorizzare la storia, la terra e la natura delle isole Eolie. E le ha trasformate in vini incantevoli, recuperando vitigni autoctoni e lavorando le uve “come una volta”. La Tenuta di Castellaro è una gemma tra le gemme. Incastonate nel blu del Mediterraneo, le isole Eolie sono sette magnifiche sorelle, e sulla maggiore di esse, Lipari, sorge l’azienda nata da un’idea (o forse meglio dire da un sogno) di Massimo Lentsch e Stefania Frattolillo, imprenditori bergamaschi. La viticoltura che si pratica qui viene definita “eroica” (ma non è un’iperbole linguistica, è una vera categoria di allevamento): il termine fa riferimento alle condizioni impervie che una location come queste isole vulcaniche rappresenta. Inoltre, un sapore ancora più “leggendario” è assicurato dalle origine di questa coltura, che nelle Eolie risale all’epoca dei Fenici e dei Greci, come testimoniano i resti di antiche anfore qui ritrovati. Una terra che non fa sconti, dunque, e che chiede molto, ma che molto sa anche dare, se la si rispetta. Con questo obiettivo in mente, nel 2005 nasceva Tenuta di Castellaro: “produrre un vino che sia puro estratto di un territorio”. Tale nobile intento era poi accompagnato dalla volontà di tutelare e promuovere un luogo unico, in grado di offrire tanto oltre a un incantevole mare, per un vero, grande progetto enologico e paesaggistico. SOLE, ARIA E…. LAVA Le Eolie sono isole di origine vulcanica e il terreno su cui dimorano i vigneti aziendali è composto da cenere vulcanica e lapilli, pomice, ossidiana e caolinite. Pomice e ossidiana, in realtà, derivano da materiali fusi simili per composizione chimica (in prevalenza acidi), con differenze nei tempi e nelle modalità di solidificazione. Costituiscono lo scheletro del suolo, che facilita il drenaggio e lo scambio degli elementi chimici, mentre le ceneri vulcaniche ricche di elementi minerali (in particolare fosforo, potassio, ferro, magnesio e calcio) lo rendono estremamente fertile. A completare lo scenario, sull’isola agiscono i venti, in particolare scirocco e maestrale, che garantiscono un clima temperato, con temperature costanti (sempre tra i 10 e i 30 gradi) ed escursioni termiche in cui le notti restano fresche e mai fredde. A Lipari i vigneti hanno necessariamente estensioni limitate, ma ad oggi la Tenuta di Castellaro, con i suoi circa 2.000 metri quadrati di superficie, è la cantina bioenergetica più grande delle Eolie. Gli appezzamenti si dividono in due aree: la Piana di Castellaro, nel settore nordoccidentale dell’isola, dove i terrazzamenti raggiungono circa 350 metri di altitudine; e la Vigna Cappero, in posizione diametralmente opposta, a sud-est, a soli 80 metri sul livello del mare. 20.000 ANNI DI STORIA IN UNA CANTINA La prima annata vinicola prodotta risale al 2008, ma vale la pena fare un piccolo passo indietro per scoprire alcune peculiarità della Cantina. Sin dai primi passi, Massimo e Stefania hanno scelto di collaborare con una serie di consulenti che permettessero loro di adottare le migliori tecnologie, creando una struttura innovativa e funzionale, ma perfettamente integrata nell’ambiente circostante. Il progetto è stato realizzato con lo studio Dal Piaz Giannetti Architekten di Amburgo, perché fosse a impatto zero e dotato di una barricaia completamente interrata, sull’esempio delle abitazioni ipogee tradizionali. Creata la struttura portante su 3 livelli, in modo da sfruttare la forza di gravità per travasi o spostamenti del mosto (con risparmio di energia e alcun danneggiamento del prodotto dovuto a pompe o altri sistemi), gli ambienti interni sono poi stati ricavati per “sottrazione”, scavando nel sottosuolo: in questo modo le colonne rendono evidente la stratificazione del terreno lungo un periodo geologico di oltre 20.000 anni. Inoltre, grazie all’utilizzo di camini solari, l’illuminazione è quella assicurata dal sole, mentre la torre del vento crea un sistema di climatizzazione naturale, con relativo controllo dell’umidità e della temperatura interne. In un contesto simile è scontato che anche quasi tutte le pratiche in vigna siano svolte a mano, e ogni aspetto sia affidato a un professionista: dall’agronomo all’enologo, dal responsabile della cantina a chi si occupa della promozione e della commercializzazione dei vini in Italia e sui mercati internazionali. LE PRODUZIONI I vini biologici di Tenuta di Castellaro nascono dalla selezione delle più sane e antiche viti autoctone delle Eolie (in particolare Corinto Nero e Malvasia delle Lipari). La produzione media si aggira intorno alle 55.000/60.000 bottiglie all’anno. I vini prodotti sono il Bianco Pomice IGT Terre Siciliane Bianco (Malvasia delle Lipari e Carricante), il Nero Ossidiana IGT Terre Siciliane Rosso (Corinto Nero e Nero d’Avola), il Corinto IGT Terre Siciliane Rosso (Corinto Nero), il Bianco Porticello IGT Terre Siciliane Bianco (Carricante, Moscato Bianco), il Rosa Caolino IGT Terre Siciliane Rosato (Corinto Nero e altri vitigni rossi autoctoni), l’Ypsilon IGT Terre Siciliane Rosso (Corinto, Nero d’Avola e Alicante), il Malvasia delle Lipari DOC (Malvasia e Corinto), e il Marsili IGT Terre Siciliane (Pinot Nero). BIANCO POMICE, UN BOUQUET STREPITOSO Il Bianco Pomice di Tenuta di Castellaro (13%) è uno di quei vini bianchi di cui è impossibile non innamorarsi una volta provato e conosciuto. Sì, perché oltre alla piacevolezza intrinseca, questo bianco - un vino fatto “come una volta” - è in grado di raccontare una storia incredibile, una storia fatta di uomini, di fatica, di passione, in uno degli angoli più paradisiaci d’Italia. È il bianco di punta della tenuta di Castellaro. L’uva è selezionata e raccolta a mano, i lieviti utilizzati sono quelli indigeni e la chiarifica avviene naturalmente, travasando il vino varie volte prima dell’imbottigliamento. L’affinamento in bottiglia è di almeno 6 mesi, mentre la capacità di invecchiamento stimata è di 8/10 anni minimo. Il Bianco Pomice sprigiona mille profumi, frutto della splendida unione di Malvasia delle Lipari (60%) e Carricante (40%), che si sposano perfettamente e si completano, valorizzate dal terreno sabbioso vulcanico ricco in microelementi di Lipari che conferisce loro una straordinaria ricchezza minerale. Veste un bel colore giallo paglierino intenso e brillante, con riflessi dorati che attraversano il mio calice. Al sorso arriva secco, pulito, di grande finezza e freschezza esaltante, sia olfattiva che al palato: agrumi (cedro e limone